Tiranno è forse una parola grossa nel rock, un mondo che per tanti è sinonimo di libertà, trasgressione, inventiva, utopia ri voluzionaria. La musica in sé, nei casi migliori, conserva tuttora l’aura della sessantottesca ’immaginazione al potere’, ma chi crea il rock spesso non è esente da gravi pecche comportamentali che non riguardano esclusivamente la sfera privata tutta ‘sex and drugs’ – come raccontano alcuni esegeti in materia, il Gary Herman di Rock Babylonia in primis – ma attiene purtroppo anche al momento collaborativo, quando appunto la creatività del singolo muta in tirannia dell’uno sugli altri, del leader (o presunto tale) sui musicisti ‘subalterni’. Tutti, nel rock, possono (o devono, secondo copione) ostentare atteggiamenti presuntuosi, sgradevoli, narcisisti, ‘cattivi’, ma spesso l’antipatia o la superbia (effettive sindromi da rock star) vengono ricondotte nell’alveo della maniacalità precisionista come accade a Frank Zappa con le Mothers Of Invention o a Billy Corgan degli Smashing Pumpkins ai concerti o in sala di registrazione; oppure il distacco verso gli ‘orchestrali’ è soltanto timidezza non ben mascherata, nemmeno da quintali di coca, come accade a Miles Davis, cinico e al contempo generoso talent scout. I casi in cui si litiga fanno parte della stessa natura identitaria della rock band, spesso di effimera durata o quasi mai compatta fino allo scioglimento. Però, per citare due ‘archetipi’, Beatles e Rolling Stones, non esiste alcun tiranno, semmai qualche egocentrico che smonta il giocattolo (Paul McCartney) o viene sempre ricondotto all’ovile (Mick Jagger). Altri leader da Robert Fripp per i Kinhg Crimson a Ian Anderson dei Jethro Tull sono al comando di formazioni instabili o cangianti per libera scelta condivisa unanimemente. Ma esistono situazioni clamorose dove il tiranno serpeggia all’interno di un gruppo, quale solista in grado di rendere la vita difficile o persino grama ai comprimari che lo attorniano, in un vortice di casistiche riguardanti di volta in volta la misantropia, il superomismo, l’avidità, lo squilibrio, l’imprudenza, l’autocompiacimento.

La famiglia Wilson e i Beach Boys

Nella storia del rock tutti conoscono le vicende del quintetto californiano The Beach Boys, in pratica una vera e propria famiglia, il cui leader e genio indiscusso, Brian Wilson, chiama a sé i fratelli Carl e Dennis, il cugino Mike Love e il compagno di scuola Al Jardine. E tutti sanno che le bizze di Brian sono dovute da sempre a problemi psichici, mentre tanti ignorano che a causarglieli sia loro padre, Murry Wilosn, un mostro della manipolazione, capace di gestire la band fin dagli esordi in modo tirannico. Quindi Brian diviene da pacifico carnefice a illustre vittima, nel senso che, appena è sotto pressione alla ricerca di risultati artistici convincenti (come sarà in seguito con gli album Pet Sound e Smile), il paparino lo convince a rinunciare alla metà della quota dei diritti sulle canzoni. Pare che una notte Murry chiami il figlio in studio, dicendogli: “Io ho diritto. Sono stato tuo padre per tutta la vita. Io sto facendo tutto ciò che è giusto per voi tre”. Brian alla fine s’impegnerà ancora di più nella dimensione creativa. La chiamata di Murry, con la quale interrompe le session in studio del brano Help Me Rhonda (per The Beach Boys Today, 1965), diventa un ‘capolavoro’ di ricatto emotivo. Il padre-padrone critica chiunque, nel gruppo (e all’esterno), possa minare la sua influenza definendole ” persone che hanno provato a farti del male”; e risponde alla rabbia, che sta provocando a Brian, con sarcasmo: alla fine, sghignazzando, pontifica sul fatto che la band avrebbe bisogno di sciogliersi. Al contrario i ‘ragazzi da spiaggia’ licenziano Wilson senior come manager, causando una durissima reazione verso il povero Brian: “Ciò che hai ottenuto – dice il padre al figlio – è solo grazie al mio duro lavoro. Entrambi lo sappiamo: sono io lo scrittore in famiglia. Il vero talento. Voi sarete sempre degli eterni secondi”. Mike Love, che viene ricordato tra le persone più sgradevoli nelle cronache musicali, non a caso commenta: “Murry era un figlio di puttana. È stato terribile. Sono così contento che non era mio padre”.

Axl Rose e i Guns N’ Roses

Il regista della devolution dei Guns N’ Roses da grande band a uno scherzo di cattivo gusto, William Bruce Rose, detto Axl, è assai noto tra gli appassionati come genere di ragazzaccio che per esempio si presenta sul palco con un’ora di ritardo, che fa i capricci, che va fuori dopo tre canzoni, che torna un’ora più tardi sotto la minaccia di un contenzioso giuridico, e che porta a termine il concerto di fronte a una platea ormai semivuota. Rose diventa quasi subito un problema, un rompicapo impossibile, non appena la band miete i primi successi. Le sue buffonate cominciano il 30 novembre 1988 con l’uscita del brano One In A Million, da cui testi razzisti e bigotti prendono le distanze i membri del gruppo; proseguono sfidando ripetutamente i propri musicisti a dar battaglia attraverso la stampa; continuano annunciando i problemi di droga degli altri Guns N’ Roses dal palco di Los Angeles: una mossa, come ricorda Duff McKagan, che cancella all’istante e in modo permanente il cameratismo della band medesima. Axl si produce in ulteriori tiranneggiamenti: dall’assumere musicisti di spalla senza dirlo a nessuno al fermare gli spettacoli annoiando il pubblico per interminabili minuti con noiosi sproloqui su vertenze contrattuali. Furioso con i compagni che non prendono le sue difese ogni volta che compie qualcosa di assurdo o ridicolo, Axl riesce finalmente a impossessarsi della proprietà esclusiva del nome della band, rifiutandosi, la sera stessa, di salire sul palco fino a quando non vengano firmati dagli altri quattro i documenti che sanciscono il passaggio. Nel disperato tentativo di impedire a Rose l’ennesimo disordine, la band firma; ma in soli tre anni, Axl si aliena l’intera formazione originaria, sostituendola con anonimi turnisti, ottenendo così il pieno controllo da tempo ‘meditato’, sino a rigirare Guns N’ Roses in un atto di rinascita senz’anima e senza identità.

James Brown

Il potere incredibilmente coercitivo di James Brown sulla band che lo accompagna dal vivo non viene fuori dal nulla. Il Soul Brother Number One, come viene chiamato dagli amici e poi dai fan, gioca sulla disciplina dei suoi musicisti sotto svariati aspetti, sino a infliggere multe salate per tutto, dai ritardi agli spartiti. Il sassofonista Maceo Parker ricorda: “Dovevi essere in tempo per tutto, avere le ‘uniformi’ stirate e il papillon bene annodato, non potevi suonare in pubblico senza il fascione sulla pancia e le scarpe dovevano essere lucidate accuratamente e perciò lucidissime; dovevi avere sempre questa roba a posto”. Proverbiali risultano le ammende per le note ‘sbagliate’, siano esse reali o immaginarie, che possono risultare belle improvvisazioni jazzistiche durante i concerti. Brown prevede nelle coreografie alcuni gesti delle mani che stanno a denotare sia gli errori commessi sia l’equivalente in dollari da prelevare dagli stipendi degli orchestrali. Ricorda il batterista Clyde Stubblefield: “Vedevo una mano salire nella mia direzione da 5 a 10, 15, 20, che significava una detrazione dai miei 200 dollari di salario giornaliero, con cui devo coprire anche il conto dell’hotel compresi i pasti e la lavanderia, mentre sono on the road, in tournée”. La cantante Vicki Anderson rammenta di una multa di ben 75 bigliettoni, per essersi assentata legalmente da uno spettacolo, onde assistere al funerale della sorella: rifiutatasi di pagare, crea una situazione di stallo che viene superata solo quando il manager di Brown pagato la multa per lei. Nella vita privata, poi, le cattiverie di Mr. Dynamite gli costano spesso la galera, senza per questo che muti il giudizio su un’arte musicale genialissima.

Roger Waters e i Pink Floyd

Se si vuole conoscere una storia alternativa del ‘Fluido rosa’, basta osservare i crediti riguardanti la scrittura dei brani in celeberrimi album: The Dark Side Of The Moon ha una buona varietà di nomi (praticamente tutti: Roger Waters, David Gilmour, Rick Wright, Nick Mason) allegati alle singole tracce. I titoli di testa di The Wall, invece, sono accompagnati, canzone dopo canzone, dalla sola scritta ‘Roger Waters’ (solo occasionalmente un ‘Gilmour’ nel mix). Al loro top, i Pink Floyd sono una fluorescente miscela di testi poetici di Roger e di visioni musicali dell’intera band (anche quando agli inizi milita un Syd Barrett ultra-psichedelico). Tuttavia, come membro più prolifico, Waters arriva a vedere se stesso quale unico responsabile del successo della band, mentre in realtà il presunto dominio via via svilisce il sound del quartetto dalle originarie forme lussureggianti a una meccanica algida inventiva. Con la registrazione di The Wall insomma Roger sta usando un potere tirannico per tenere in ostaggio la band; accetta quindi solo un paio di pezzi di Gilmour in segno di protesta, non immaginando che uno, Comfortably Numb, diventerà tra le loro canzoni in assoluto più amate; Roger fa persino stampare alcuni cartelli con la scritta Nope (“No Points Ezrin”) per schernire il grande produttore Bob Ezrin sui diritti d’autore (che Waters vuole ovviamente azzerare); Ezrin, dal canto suo, racconta che, nei giorni in studio per l’album, gli sembra di essere una vittima da bullismo scolastico, quando si teme ogni giorno di entrare in classe. Dopo un’accesa discussione con Wright, Waters si prodiga in ulteriori minacce: se Wright non verrà licenziato, The Wall dovrà uscire quale album solista, fino ad affermare: “È il mio disco, e ho lasciato che il resto della band lo suonasse”. A quel punto i Pink Floyd sono sull’orlo del fallimento, benché molti pensano che sia una trovata pubblicitaria. Ma Wright viene licenziato e il disco successivo, The Final Cut è ‘puro stile Roger Waters’: eloquente, acido e stonato.

Mark E. Smith e The Fall

Dal 1976, ininterrottamente, il cantante Mark E. Smith risulta il leader, il gestore e il paladino del gruppo britannico The Fall, in cui si avvicendano ben 14 musicisti. Ha una visione scarna, essenziale, ascetica del rock and roll e tende a considerare gli altri membri della band come egoisti inaffidabili che vogliono rovinare la sua poetica con assolo infiniti e con fronzoli banali senza la sua approvazione. “Non mi piacciono i musicisti – dice in un’intervista – si danno un sacco di arie e vogliono solo gratificare se stessi”. L’ideale di Smith è un gruppo ai suoi piedi in ogni momento, senza una chiara idea se stiano facendo bene o male. Gli altri quattro di Fall riferiscono di ricevere da Smith enormi apprezzamenti dopo spettacoli terribili oppure ingiurie gratuite alla fine di performance sorprendenti. “A Mark non piace sentirsi dire che ha un buon gruppo – sostiene il chitarrista Ben Pritchard – e a lui davvero non piace quando gli viene detto che il gruppo sta andando bene”. Smith ricorre a una gran varietà di tattiche per far cogliere in fallo i propri compagni, scombinando le loro impostazioni a metà canzone o modificandole del tutto o ancora tirandoli fuori scena a metà concerto per accusarli di “suonare come una fottuta pub band”; spesso li multa quando s’ingegnano in assolo improvvisati o fornisce indicazioni errate sugli studios in modo che giungano arrabbiati e presumibilmente riescano a suonare meglio. Mark non considera nessuno dei Fall come insostituibile arrivando a dire che “Chiunque si riveli indisponente con me, ho sempre qualcuno pronto a sostituirlo; è come un plotone di esecuzione: se, davanti, i primi tre sbagliano il colpo, ne hai altri tre dietro di loro, in seconda fila”.

Phil Spector

Nelle vesti di produttore, arrangiatore, compositore, l’ambiguo settantacinquenne risulta assai influente nella storia musicale americana, ritenuto da tutti l’architetto di un suono-chiave del pop anni Sessanta. Tuttavia, il disordine mentale provocato da fame di cocaina e sete di potere, lo spinge verso comportamenti estremi, ai limiti della decenza psichica, già verso la fine dei Sixties, in una discesa agli inferi da cui non riuscirà mai a recuperare totalmente. Ed Stasium, un tecnico del suono ricorda: “Qualcuno potrebbe cantare in un tono sbagliato e sarebbe solo lui [Spector] a innervosirsi, ma all’improvviso sarebbe lì a urlare contro qualcuno, fino a strappare furiosamente la chitarra dalle mani del chitarrista e gridare: ‘Questo è quello che ti ho detto di suonare, stronzo!'”. È risaputo l’episodio in cui Phil tiene John Lennon in attesa per ore, mentre giocherella all’infinito con le tracce sulla consolle: e il tutto si risolve con uno scatto di frustrazione da parte di Spector, che estrae una pistola spara al soffitto dello studio. Più avanti nel 1979 quando deve registrare i Ramones, non sa bene come districarsi. Per prima cosa tiene in ostaggio il gruppo nella sua casa per mezza giornata; quindi resta ossessionato dall’accordo di apertura del pezzo Rock ‘N’ Roll High School, costringendo Johnny Ramone a suonarlo più e più volte per ore. Non a caso quest’ultimo ricorda: “Phil mi ha costretto a trovare l’accordo restando con lui nella stanza per circa tre ore, maledizione”. Ancora Stasium racconta che Spector una volta è così insoddisfatto da riprendere un brano e risuonarlo di nuovo per ben 160 volte: “Avrebbe potuto fermare il nastro o pestare i piedi o andare a cagare o farsi fottere!”. Johnny Ramone continua a sostenere che quando Phil “tratta tutti in modo orribile”, è perché sta dicendo qualcosa di importante, visto che, come si può constatare, lui ha i suoi grossi problemi.

Johnny Ramone e i Ramones

John William Cummings (1948-2004) dei Ramones passa come un conservatore di destra e il prodotto tipico della scuola militare yankee. Si trova a condividere una punk band con un cantante fragile dai disturbi ossessivo-compulsivi, un bassista bipolare tossicodipendente e un batterista semi-alcolizzato. Di tutte le persone, Johnny Ramone potrebbe essere l’unico dotato di ‘normalità’, dal momento che la maggior parte del pubblico e della critica concorda sul fatto che è soltanto il suo approccio rigoroso alla musica a tenere insieme i Ramones. Si tratta di un pregio notevole che però non fa di lui un bravo ragazzo: Johnny infatti risulta meschino o sferzante se la gente ad esempio non si attiene ai posti riservati sui bus per le tournée o se non gli resta amico come invece accade a Joey Ramone. Nel 1980, la fidanzata di quest’ultimo, Linda, lo lascia per cadere fra le braccia di Johnny, che finisce per sposarla, senza mai pronunciare una parola di scuse verso Joey, il quale ferito nell’orgoglio, quasi non gli rivolge la parola nei restanti quattordici anni di comune esistenza in una band, negli anni, sempre parodia di se stessa. L’immagine del gruppo – stretto nelle logore ‘uniformi’ con jeans, giubbotto, t-shirt – è reiterata tirannicamente da Johnny nonostante le crescenti obiezioni, soprattutto da Dee Dee Ramone che protesta: “Ero malato e stanco della giacca da motociclista e il taglio aderente di maglie e pantaloni; questo in fondo era il modo di vestire che ho usato quando pensavo di essere un inutile pezzo di merda”. Uno degli ultimi atti di ribellione di Dee Dee prima di lasciare i Ramones consiste infatti nell’agghindarsi, per uno show, come il rapper ‘alter ego’ Dee Dee King: capelli corti, gioielli vistosi e abiti luccicanti.

Captain Beefheart & His Magic Band

Don Van Vliet, meglio noto come Captain Beefheart, è un musicista unico nel suo genere, che riesce a condurre una decostruzione del rock and roll, fino al ricondurre essenzialmente il suono del proprio quintetto a dadaistica scrittura, a rumore avanguardista, a blues futuristicheggiante. Tanto influente quanto paranoico in dosi massicce, il capitano si convince definitivamente, durante gli anni Sessanta, che all’interno della sua magica banda esistano alcuni membri vogliosi di scardinare la sua leadership. In risposta, crea un’atmosfera da ‘culto della personalità’ sottoponendo gli orchestrali (di volta in volta individuati come responsabili) a un vero e proprio abuso fisico e psicologico. In un’intervista, il batterista John French ricorda “tutti nella band mi colpivano in faccia allo stesso tempo”. Ulteriori abusi sopportati da French includono un risveglio sotto il ghiaccio, tremante dopo una sbronza, a cui segue l’interrogatorio del ‘capitano’ su “come avrei potuto mettere in imbarazzo la band in questo modo”. Durante la realizzazione del capolavoro Trout Mask Replica (1969-70), Beefheart decide di comunicare le proprie idee alla Magic Band esclusivamente attraverso cantilene, fischi, giochetti con l’armonica a bocca, salvo poi dar fuori, mostrandosi ridicolmente sconvolto nell’urlare “Non è questo, uomo, ma che cazzo stai facendo?”, allorché qualcuno del gruppo cerca di interpretare i criptici segnali acustici. I cinque vengono rinchiusi in una casa isolata, provando il disco per 14 ore al giorno con a malapena un veloce intervallo per un misero spuntino. Questo isolamento, assieme alla tenera età dei musicisti e alla venerazione per Beefheart, conduce il gruppo a condividere un punto di vista aberrante, ossia ritenere che la tirannia del capo sia in fondo colpa degli altri quattro. French continuerà a descrivere il trauma persistente, dopo queste esperienze, sostenendo che “hanno fatto di tutti noi qualcosa di disadattato nella società, in modi diversi”.