Se nel 1976 «Time» descriveva la fascia diurna occupata dalle soap come il mercato televisivo più ricco, nei primi anni ottanta il settore risulta ancor più florido. Ben sedici produzioni facevano bella mostra nei palinsesti dei network Usa, strategicamente collocate nel daytime con ascolti alle stelle, fatturati pubblicitari in continua crescita mentre le star protagoniste ricevevano cachet di tutto rispetto. Come Susan Lucci – Erika Kane di All My Children – che nel giro di poche stagioni aveva visto lievitare il suo cachet fino a 1 milione di dollari. La soap opera è un prodotto tipicamente americano e da non confondere con le telenovelas sudamericane, dall’impianto narrativo diverso e soprattutto con un finale che prima o poi arriverà.
La soap è eterna, può tranquillamente superare i settant’anni come è accaduto alla decana del genere – Guiding Light, Sentieri nella traduzione italiana annunciata dalle note di This is the time griffata Billy Joel che segnava l’inizio di quaranta minuti in cui – crollasse il mondo – nessuno poteva disturbare il fan tipo della serie. L’origine della soap è però radiofonica, sponsorizzata da note marche di detersivi come Procter & Gamble, Colgate-Palmolive e Lever Brothers – ma con l’avvento del piccolo schermo trasmigra negli anni ’50 in tv. È il caso appunto di Sentieri, la cui era è iniziata in radio nel 1937 e si è conclusa in tv nel 2009.

MA SE il successo è rimasto inalterato per decenni, e amplificato con l’arrivo anche nei palinsesti europei nei primi anni ’80, dagli anni ’90 una crisi (quasi) irreversibile ha colpito il settore, tanto che negli Stati uniti ne sono rimaste in vita solo quattro: The Young and the restless – dal 1973 la serie più vista negli Usa, Beautiful, General Hospital (ad oggi la più longeva, in onda dal 1963) e Days of Our lives. Una crisi dettata dal cambio generazionale, dalla trasformazione dei riti quotidiani ma soprattutto dall’avvento dei reality. Anche se – e su questo gli esperti televisivi americani concordano – l’inizio della discesa coincide con il processo a O.J. Simpson che dal gennaio all’ottobre del 1995 tiene incollati davanti al piccolo schermo milioni di telespettatori. I palinsesti si adattano a questa primordiale forma di reality e le soap iniziano a perdere ascolti, un’emorragia sempre più evidente che costringe – nel volgere di un decennio – molte storiche soap a tagli drastici dei costi di produzione e poi alla cancellazione definitiva. Ma non è la fine del genere la cui formula – in qualche modo – viene trapiantata nei format degli stessi i reality show: cosa sono i finti minuetti fra i protagonisti del Grande Fratello se non una chiara deriva di matrice soap?

PALESTRE di recitazione, per i tempi stretti a cui costringe gli attori a memorizzare pagine di copione in pochissimo tempo, le soap hanno lanciato diversi attori poi diventati celebri: Demi Moore ha recitato in General Hospital; per All My Children sono passati Christian Slater, Amanda Seyfried, Melissa Leo, Morgan Freeman e l’insospettabile Jack Nicholson. L’Italia – che ha scoperto il genere con molto ritardo – si è curiosamente appassionato alle vicende di soap che negli Stati uniti hanno avuto poco seguito di pubblico e conseguentemente cancellate dopo pochi anni.
È il caso di Santa Barbara, trasmessa dal 1984 al 1993, amata dalla critica Usa che gli ha conferito ben 20 Emmy Awards, soap nel cui cast troviamo anche Robin Wright, nei panni di Kelly Capwell e (in poche pose peraltro) un giovanissimo Leonardo Di Caprio. Per Quando si ama si è scatenato addirittura il delirio, ultima nei ratings della Nielsen, nei dopopranzi di Rai2 è arrivato a fideizzare ben 5 milioni di spettatori. E ancor prima Capitol, ambientato nei palazzi del potere a Washington, con un cast ricco di vecchie star di Hollywood dalla perfida e magnifica Carolyn Jones, passando per Constance Towers, Richard Egan e l’ammaliante Julie Adams, assassina per copione e malata di agorafobia…