«Fare questo film è stata un’esperienza paragonabile a un processo di guarigione» dice Samaher Alqadi – regista palestinese che da 18 anni vive in Egitto, dove si è trasferita per frequentare la scuola di cinema – del suo As I Want, documentario «nato dalla rabbia» e che approda a una maggiore consapevolezza di sé nonostante lo «schiaffo in faccia» rappresentato dal colpo di stato militare in Egitto, «come un sogno che si tramuta in un incubo».

La rabbia nasce dallo stupro durante le proteste in piazza Tahrir, nel 2013, di un’amica della regista – come è accaduto ad altre decine di donne che hanno preso parte alle manifestazioni: «Dopo lo stupro della mia amica ero furiosa, e ho cominciato a portare con me la telecamera ogni volta che uscivo di casa, ovunque andassi – per mostrare che il problema per noi donne non riguarda solo i casi più estremi ma entra nella nostra vita quotidiana, qualunque cosa facciamo».

SOLO LE RIPRESE, racconta Alqadi, sono durate tre anni, all’interno di un progetto che ha avuto una gestazione di quasi una decade: «La cosa che richiede più tempo è scavare dentro se stesse, mettere in comune i propri problemi con quelli di altre donne, in un modo che sia cinematografico e non solo attraverso le parole». E durante la lavorazione accade un altro evento che rimette in discussione la prospettiva sulle cose: la morte improvvisa della madre della regista. «È stato uno shock – c’era un profondo conflitto con lei perché non mi volevo sposare giovane, volevo studiare. Una relazione difficile fatta di paura e amore. Attraverso il film ho cercato di ricreare con lei una diversa connessione». Con la madre della fimmaker As I Want instaura infatti un dialogo a distanza e in assenza, che si rispecchia in quello con il figlio di Alqadi e interroga il rapporto fra generazioni, il nostro lascito a quelle successive e ciò che abbiamo ricevuto in eredità.

«Sono particolarmente affezionata alla sequenza del film in cui parlo con le bambine al parco giochi – spiega la regista – Alcune di loro mi dicono che il modo in cui sono vestita, con le gambe e la testa scoperta, non è ’sconveniente’ – ciò che invece sentivo ripetermi costantemente da piccola: che il corpo e la voce di una donna sono motivo di vergogna. Fino a quando ci verrà insegnato di dovremo vergognarci di ciò che siamo?».

Con il suo film, Alqadi «dimostra» inoltre che il lungo cammino che porta a ciò che di recente i media internazionali hanno soprannominato il #MeToo egiziano – dopo la condanna di uno studente che molestava le donne online – ha radici molto più lontane nel tempo: «Credo sia un’ondata travolgente, qualcosa che è iniziata molto prima dell’interessamento dei media ma anche dello stesso film. Un’ondata di donne rivoluzionare che hanno cominciato a prendere la parola, una lotta che non deve fermarsi. Non solo in Egitto ma in tutto il mondo».