Gli ottanta anni di Arvo Pärt, festeggiati nel 2015, sono stati un evento globale. Molti sono stati gli omaggi, le celebrazioni, i libri, le uscite discografiche e in dvd delle sue opere, che hanno evidenziato ancor più la grandezza e la statura morale e intellettuale. Nondimeno sono state le dichiarazioni di autentica venerazione, stima e apprezzamento di tanti artisti, e molti tra loro non erano solo musicisti; e per quest’ultimi vale la provenienza da generi e ambiti diversi da quelli dello stesso compositore. Sono stati soprattutto il rock e la techno-musik ad innalzare Pärt a propria fonte d’ispirazione e influenza. E ad un anno di distanza, l’eco di tutto ciò sembra non essersi spento. Anzi, l’uscita e il successo in Italia di un libro dello scrittore e viaggiatore Jan Brokken, Anime Baltiche, pubblicato dalla casa editrice Iperborea, non pare un caso che si chiuda con il profilo biografico, proprio di Pärt: uno dei più belli scritti su di lui, che racconta sia i difficili inizi a Tallin, gli scontri con la cupa burocrazia sovietica, le crisi esistenziali e i suoi lunghi silenzi, l’invenzione del «tintinnabuli» e i rapporti con la Chiesa ortodossa sia i successi ottenuti dalla sua musica a partire dall’incontro con Manfred Eicher: il fondatore dell’etichetta discografica Ecm e visionario perfezionista del suono, già contrabbassista dei Berliner Philarmoniker e creatore di uno dei più longevi successi discografici degli ultimi quarant’anni, il «Koln Concert» di Keith Jarrett. Insomma, la pubblicazione – nel 1977 – di «Tabula Rasa» sancì l’incontro tra due visionari della musica, del suono e della registrazione. Non va, infatti, dimenticato che all’inizio degli anni sessanta Pärt fu impiegato alla radio estone in qualità di produttore e tecnico del suono. Per comprendere la sua musica bisogna spiegare la rivoluzione da lui operata con l’evocato «tintinnabuli» che sta alla base della sua poetica, ben illustrata, ancora una volta dal suo alter-ego, nell’antologia «Musica Selecta. A sequence by Manfred Eicher». Come scrive Christine Kanownik: «Nel tintinnabuli ci sono due voci dominanti: la principale, o voce tintinnabulare, canta o esegue un arpeggio o la triade tonica, mentre la seconda compie un movimento diatonico e progressivo. Uno degli esempi più chiari e più famosi del suo «Spiegel im Spiegel» fa da sottofondo al trailer cinematografico di Gravity». In coda appare il cinema e non è un abbaglio. Entrando in discorso, molto cinema contemporaneo ha saccheggiato il repertorio del compositore. In elenco basta citare: Fahrenheit 9/11, Il Petroliere, To the wonder, Come un tuono, e stando all’Italia, L’attesa di Piero Messina e Mia madre di Nanni Moretti. Mentre come compositore di cinema, tutt’ora attivo, Pärt è rimasto sempre un po’ relegato ai margini, occupandosi in cinquant’anni di attività di servire soprattutto cortometraggi e documentari, uno degli ultimi riguarda la resistenza di Gezi Park. Dunque, il cinema può apparire come un’attività marginale nel novero degli interessi del compositore estone? Non pare proprio ad analizzare tra le uscite dell’anniversario tre dvd che testimoniano il primo i suoi primi anni di lavoro (The Early Years di Dorian Supin, Arthaus Musik), mentre gli altri due, pubblicati dall’Accentus e come l’altro distribuiti dalla Ducale, l’opera «Adam’s Passion» e il backstage «The Lost Paradise» registrano da due punti di vista complementari lo sviluppo e la realizzazione da parte di Robert Wilson di una delle più celebre opere musicali di Pärt. In questo caso e con altri media – l’innesto nei modi di ripresa del discorso teatrale di Wilson – s’affaccia alla ribalta un Pärt totalmente a proprio agio con la macchina da presa e la telecamera, sia come espressione documentaria di un pezzo di vita, giocata in viaggio tra l’Estonia, il Giappone e il Vaticano (alternate alle testimonianze di amici come Sofia Gubaidulina, Gidon Kremer o Paul Hillier e ad immagini di repertorio), sia come proposizione, pur nella complessità dell’azione, di teatro televisivo. Anche quando lo svolgimento dell’opera, punto d’unione attraverso la figura del padre dell’umanità di culture e religioni diverse, commentata da Wilson, tende a schiacciare un po’ troppo Pärt verso una direzione misticheggiante che cozza, terribilmente, con la propria coscienza artistica e intellettuale volta alla comprensione dell’oggi.