«Fammi indossare le mie orecchie» Arturo Ripstein apre una piccola scatola ed estrae un paio di apparecchi acustici borbottando qualcosa contro gli altoparlanti dell’hotel, colpevoli di amplificare musichette lounge nella speranza, forse, di ravvivare qualche turista esausto. Il suo inglese «assolutista» e imperativo invita a spostare la conversazione all’interno del bar perché «se hai fatto la salita a piedi per raggiungermi qui vuol dire che per qualcuno sono importante». È incredibile e struggente come uno dei più grandi registi ancora in attività (il suo ultimo film La calle de la amargura è stato presentato lo scorso anno a Venezia e riproposto qui a Locarno all’interno della sezione «I film delle giurie») sia al contempo di un’umilità e di una sicurezza disarmanti alternando, per tutta la durata di questa lunga conversazione, risate, ricordi, autoironia, lampi tranchant sul cinema di oggi e sorrisi dolcissimi sulla celluloide di ieri…
La prima cosa che volevo chiederle riguarda la biografia «essenziale» che appare sul catalogo del festival. Tre frasi: «Nato in Messico il 13 dicembre 1943. Ha diretto il suo primo film del 1965. Oggi, 51 anni dopo, ci prova ancora». Che cosa sta ancora provando a fare?
Un buon film! E lo dichiaro a voce alta anche perché quella biografia l’ho scritta di mio pugno. Sai, la mia carriera si è basata fondamentalmente su due cose: la prima è stata la fortuna, l’altra la testardaggine. Ma non credo di essere stato così fortunato alla fine visto che lavoro da moltissimi anni, ho fatto una marea di film ma non si è realizzato il mio sogno, quello di asssitere a una mia proiezione ed esclamare a fine film «Che bello!» ed è per questo che, come ho scritto, ci sto ancora provando.
Cosa le ha «impedito» in tutti questi anni di realizzare questo sogno?
Difficile a dirsi (ride…) Sono un cineasta «medio» che fa film in base alle molteplici suggestioni che riesce a catturare. Ho imparato prima il mestiere e poi ho cercato di «accordarmi», come uno strumento musicale, alle leggi del cinema e del mio sguardo. Credo che il mestiere, mi piace sottolineare questa parola, si determini in base al modo in cui osservi e comprendi le cose e io non ho mai voluto essere, in tutta la mia carriera, un antropologo, un politico o un sociologo ma semplicemente qualcuno che racconta qualcosa e ho studiato le molteplici modalità che usa il cinema per raccontare storie. Sono sempre stata un regista periferico, mai mainstram, nemmeno in Messico, nemmeno quando per Foxtrot ho lavorato con Charlotte Rampling e Peter O’Toole. Oggi sono nella periferia della periferia e non mi sento a mio agio in questo presente, sono sorpreso e incazzato perché il mio «credo» è sempre stato diverso. Il cinema di oggi, cosa che ho potuto osservare anche qui a Locarno in qualche occasione, è per la maggior parte contemplativo: i personaggi si siedono, pensano (o almeno hanno la presunzione di farlo) e non osservano nulla. In questo sento di avere «perso» una battaglia. Parlavo proprio stamattina con mia moglie (la sceneggiatrice Paz Alicia Garciadiego ndr) dell’obsolescenza del cinema: quando ero giovane lottavamo per cacciare i vecchi e forse oggi è il mio turno perché l’abulia non è mai stata una mia buona amica, nemmeno dell’arte, figurarsi del cinema.
Recentemente ha dichiarato, commentando il successo di suoi conterranei come Alfonso Cuaron e Alejandro Iñárritu, oggi perfettamente inseriti nell’industria hollywoodiana, che forse manca un vero punto di vista sul Messico. Che tipo di sguardo ha perduto oggi il cinema del suo paese?
Purtroppo ci sono pochissimi giovani registi, come in ogni paese, che hanno una visione precisa, un pensiero proprio ma preferisco parlare di me. Nel mio caso ho sempre sentito di appartenere al Messico perché qualunque cosa faccia è determinata da ciò che vedo e sento accadermi intorno. Non credo però nella realtà, in Dio sì ma non nel reale e non è affatto un paradosso. Per me è molto difficile comprendere la realtà quindi avvio, attraverso il cinema, un processo di filtrazione in modo da creare un mondo che finalmente riesco a decifrare, una realtà che voglio e posso interpretare. Tutti i film miei nascono da sentimenti contrastanti: vendetta, curiosità, lotta contro il destino e questa è l’unica cosa che posso fare: scrivere, piazzare una macchina da presa e osservare. L’arte ci aiuta a comprendere il mondo perché è capace di dare una struttura alle cose, tutti siamo «vittime» di una realtà incomprensibile e sempre sfuggente. Basta pensare a una tua giornata qualsiasi: quello che oggi ti è accaduto non ha una struttura ma se ti chiedo «Che hai fatto oggi?» tu cominci a tagliare, escludere, montare la tua giornata per raccontarla a me. Così facendo, ed è quello che cerco di fare io con il mio cinema, la realtà cambia forma e diventa sostanza.
Immagino che la sua «difficoltà di lettura» del reale derivi anche dalla sua infanzia, dai set vissuti quotidianamente dove suo padre Alfredo era produttore…
Assolutamente sì. Una volta, avevo dieci anni forse, qualcuno mi chiese «Sei mai stato su un aereoplano?», io risposi «No ma so benissimo come è fatto» e cominciai a descriverlo «È una cosa rotonda con le ali e dentro c’è una cinepresa e tantissimi cavi elettrici». Pensavo che tutto fosse un set e quando la sera tornavamo a casa era un dramma, non volevo lasciarlo mai. Quando mio padre mi portava negli studio dove giravi i suoi film, per me era la felicità assoluta, che lui usava come arma però perché se non prendevo bei voti a scuola allora mi lasciava a casa. Uno dei primi ricordi della mia vita, avrò avuto tre anni circa, è la moviola di Carlos Savage, il montatore di Luis Buñuel. Ero seduto sulle sue ginocchia e lo guardavo lavorare: ero affascinatissimo e per me il set era il posto più bello del mondo. Quando poi dissi a mio padre che volevo fare il regista, lui era disperato perché convinto di avere un figlio idiota. Così mi costrinse a studiare Legge e Storia e mi rimproverò fino alla fine dei suoi giorni perché continuava a pensare che io non ce l’avrei mai fatta e forse aveva ragione (ride…)
Da scrutatore «panoramico» del mondo, nota qualche mancanza osservando il cinema di oggi?
Mi manca la narrazione, sento che sta scomparendo il piacere del racconto forse perché il cinema di oggi è semplicemente assenza di mestiere. Molti registi scambiano i propri film per arte astratta ma anche quel tipo di espressione artistica ha bisogno di competenza e precisione e non di giustificazioni. Non si può improvvisare nulla. Inoltre, oggi le piattaforme sono cambiate, si girano film con il telefono, l’arte è diventata democratica. Tutti possono fare film, tutti credono di avere un pensiero ma senza il mestiere non si può andare avanti. Anche registi che una volta apprezzavo, da Godard a Woody Allen, sono cambiati: non fanno più film, fanno manuali di istruzione: Godard su come fare i film, Allen su come essere newyorchese. Insomma, non ci capisco più niente (ride…)
Ha parlato di arte democratica con una lieve sfumatura di preoccupazione. Suppongo si riferisca soprattutto alla democraticità del digitale…La cosa la «spaventa» in qualche modo?
Quando ero giovane dovevi avere soldi, pellicola, ecc ecc per girare un film. Oggi tutti sono convinti di avere una voce ma sono certo che Dio sia in qualche modo avaro e non tutti siamo stati toccati dal suo dito. Abbiamo risposte per tutto, tutto è immediato e il senso del tempo, dell’attesa, della pazienza è completamente abolito. Se pensi ai due secoli del Rinascimento, solo un’ottantina di artisti, in senso ampio, sono sopravvissuti al tempo. Questo ci ha insegnato la Storia ma non voglio rischiare di passare per il vecchio e nostalgico brontolone, torniamo al presente!
Immagino che con queste premesse, il suo «lavoro» di Presidente di Giuria sia alquanto complicato…
Non così tanto, sto aspettando un film che mi commuova, che tocchi il mio sguardo e il mio cuore e qualcosa è già accaduto ma ovviamente non posso rivelare nulla…
Che tipo di spettatore è quando non deve assegnare il Pardo d’oro?
Vado poco al cinema perché mi danno fastidio i cellulari accesi durante la proiezione ma ogni tanto porto i miei nipoti a vedere i film prodotti dalla Marvel. Dopo trenta minuti mi addormento ma loro mi scuotono e mi svegliano «Nonno! Questo film è bellissimo!». Per i restanti film, vado spesso ai festival e mi piace vederli in sala quando non sono impegnato. Mi piace osservare la differenza fra chi vede un film con l’accredito e chi paga il biglietto. Sono pubblici diversi e anche la tua vita è diversa quando partecipi a un festival, sono sfumature forse impercettibili per gli altri ma per me, per la mia «ossessione» di interpretare il reale, sono occasioni uniche, di apprendimento continuo, non dimentichiamoci che devo ancora girare un bel film!