Il pugno alzato, i guanti neri e i piedi scalzi di Tommie Smith e John Carlos alle Olimpiadi di Città del Messico nel 1968, la medaglia d’oro di Jesse Owens a quelle di Berlino del 1936 o, ancora, la favola calcistica della «Democracia Corinthiana» di Socrates e Wladimir negli anni ottanta. Spesso la storia sportiva è fatta di eventi e di protagonisti le cui gesta non si esauriscono solo nel conseguire una vittoria o nello stabilire un primato. Nel tennis, difficile non pensare al valore simbolico che ebbero, alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, la finale di Coppa Davis tra l’americano Don Budge e il tedesco Gottfried von Cramm o, quarant’anni più tardi e nella medesima occasione, le magliette rosse indossate da Adriano Panatta e Paolo Bertolucci in Cile.
Di questi momenti fu costellata, a cavallo tra anni sessanta e settanta, la carriera di un grande campione della racchetta, Arthur Ashe. Prima dei suoi avversari, e già a livello giovanile, Ashe – nato nel sud degli Stati Uniti, a Richmond, nel luglio del ’43 –, dovette imparare a sfidare pregiudizi e ostracismi: la gran parte dei tornei erano riservati ai bianchi e quasi tutti i giocatori in attività provenivano dalla classe wasp. Appena venticinquenne fu il primo giocatore di colore a raggiungere la semifinale agli Open americani. Il clamore dell’incontro, che lo vide opposto a Clark Grabner, fu tale che il giornalista John McPhee ne trasse un libro considerato tra i capisaldi della letteratura sportiva, Levels of the Game (da noi, Tennis, per i tipi di Adelphi). Poche ore dopo, Ashe divenne anche il primo giocatore di colore ad aggiudicarsi una prova dello Slam (tuttora l’unico, insieme al francese Yannick Noah). Il successo lo portò sul gradino più alto del ranking mondiale.
Era l’inizio di una nuova era: grazie a un gioco in cui all’estrema concentrazione e correttezza si univano estro e aggressività, a quel traguardo si aggiunsero gli Open di Australia (1970), Wimbledon (1975) e altri trenta titoli nel circuito maggiore. Cólto e deciso, Ashe fu tra i leader che traghettarono lo sport dal dilettantismo al professionismo, si batté per l’istruzione universitaria degli atleti e quando, nel 1970, gli fu impedito di partecipare agli Open del Sudafrica, la sua reazione lo fece diventare uno degli emblemi della lotta all’apartheid. Appesa la racchetta al chiodo, alla guida della selezione statunitense di Coppa Davis (che sul campo vinse per tre anni consecutivi) fu un capitano silenzioso e carismatico, in grado di riuscire a domare i furori e la classe irriverente di tennisti del calibro di John McEnroe, Jimmy Connors e Peter Fleming, riportando l’insalatiera oltreoceano nel 1981 e nel 1982.
Ciononostante, come ha confessato allo scrittore Arnold Rampersad in Days of Grace (ora anche in italiano, nella traduzione di Silvia Mercurio: Giorni di grazia La mia storia (add editore, pp. 350, € 18,00), Ashe ebbe sempre l’impressione che il fatto «culminante» della sua vita non si sarebbe consumato nei duecento e passa metri quadrati del rettangolo di gioco. Nel 1988, ricoverato per un disturbo alla gamba, Arthur Ashe scoprì di essere sieropositivo e di aver contratto il virus Hiv in seguito a una trasfusione di sangue dopo una delle operazioni che si erano rese necessarie per contenere i problemi cardiaci che lo avevano costretto al ritiro, nel 1979. D’accordo con la moglie, decise di tenere segreta la notizia ma quando, quattro anni dopo, scoprì che Usa Today era in procinto di renderla pubblica, si mosse come aveva fatto centinaia di volte in campo per arginare l’esuberanza dei suoi rivali: giocò d’anticipo. La conferenza stampa che indisse l’8 aprile del 1992 fu clamorosa. Sul banco finirono il diritto alla riservatezza, la censura popolare nei confronti dell’arroganza della carta stampata e l’arretratezza mediatica rispetto a un problema di cui ancora si stentava a parlare con franchezza. La data, poi, è cruciale: l’anno prima Magic Johnson, uno dei più grandi cestisti di tutti i tempi, aveva rivelato di essere affetto dall’Aids e l’anno dopo, con Philadelphia, il regista Jonathan Damme avrebbe portato il tema della malattia nelle sale di tutto il mondo.
Nel giro di pochi mesi, Ashe fu infaticabile: diede vita a una fondazione, parlò alla Nazioni Unite, fu nominato sportivo dell’anno e fece in tempo, prima di morire (nel febbraio del ’93), a chiudere Giorni di grazia con una lettera alla figlia che vale come esortazione anche per chiunque lo abbia ammirato dentro o fuori dal campo: «lungo la strada, inciamperai, e forse cadrai; ma anche questo è normale e previsto. Àlzati, rimettiti in piedi, mortificata ma più saggia, e continua per la tua strada». Proprio come fece il tennista il cui nome è oggi quello del più grande stadio di tennis del mondo: Arthur Ashe.