È in uscita in questi giorni, Encyclopedia of Arto, doppia raccolta che riunisce tracce da studio, e un secondo live – di un musicista che ha attraversato alcune delle più importanti stagioni della musica moderna: Arto Lindsay. È a New York alla fine degli anni 70 con i DNA, insieme a Ikue Mori e Robin Lee Crutchfield, con i primi Lounge Lizards di John Lurie e con i Golden Palominos di Anton Fier, insieme a Bill Laswell e John Zorn, agli inizi degli anni 80, per approdare infine al duo Ambitious Lovers con Peter Scherer. Smessi i panni dell’amante ambizioso dà il via a una carriera solista evidentemente nutrita dalle traiettorie seguite e incrociate, ma alimentata con altrettanta evidenza dalla sua educazione sentimentale, per gran parte sperimentata in Brasile, dove è cresciuto e dove è tornato da qualche anno a vivere. E dove ha svolto la maggior parte della sua attività di produttore, cominciando dall’anno di grazia 1989, che lo vede produrre, suonare, comporre, tradurre Estrangeiro di un Caetano Veloso ancora lontano dai fasti almodovariani e dal successo planetario, chiamando a raccolta Nana Vasconcelos, Carlinhos Brown, Bill Frisell e Marc Ribot, oltre a Peter Scherer che cofirma la produzione. Eppure, la sensazione che resta di questo inquieto sessantenne, è quella di un personaggio tanto diagonale da restare sempre discosto. Quando lo incontro, è questa la prima domanda.

«Forse sono rimasto un po’ a lato perché ho fatto cose molto diverse. Generalmente, le persone ripetono sempre la stessa cosa perché sia ricordata, io ho sempre fatto le cose per il mio piacere, per il mio interesse. Chiaramente penso a una carriera, ma trovo più interessante inventarla, che seguire una formula. Può darsi che abbia un’identità più fluida di altri, e questo mi fa sentire parte di scene musicali differenti. Credo che quelli della mia generazione che hanno agito così, fossero un presagio di quanto succede oggi. Oggi è facile ascoltare, incorporare musiche di posti ed epoche differenti. Se in passato una scena era caratterizzata da un luogo, ora non lo è necessariamente, è più una comunanza di attitudini, di interessi. Persone che partecipano a una stessa scena pur non essendo dello stesso posto. Oggi le reti sociali uniscono le persone, e allo stesso tempo le dividono: chi non ne fa parte è fuori. Il web sta diventando sempre più un luogo chiuso, di gruppi chiusi. Se non sei su facebook, ad esempio, non hai accesso alle informazioni che vi circolano.

Come ci si sente a vivere «fra due mondi»?

I miei genitori erano americani e andarono a vivere in Pernambuco (Nordest del Brasile), essere fra due mondi è quello che mi è successo, non è stata una scelta e l’ho sempre trovato naturale. Nessun luogo è strano, chi cresce in posti differenti impara che nessun posto è naturale, tutto è un’invenzione dell’uomo. Se vivi in Sicilia e non ne sei mai uscito credi che vivere così sia naturale e gli altri siano strani. Ma se viaggi vedi che in ogni posto le persone hanno un modo di vivere, e che tutti questi modi sono naturali, e allo stesso tempo nessuno lo è.

http://youtu.be/GkPQPDIO1qA

Nella «Enciclopedia» ci sono solo brani della carriera solista…

L’idea era quella, non ci sono dna, partecipazioni, collaborazioni. È una falsa enciclopedia, è la parodia di un’enciclopedia. Pensare un’enciclopedia di una persona sola è già una parodia in sé.

Caratteristica della tua estetica musicale è collocare elementi estranei, inserirli in maniera che risulti «incomodante» in senso interrogativo…

Non credo che la musica debba essere «incomodante», ma non penso neanche che mi disturbi solo il rumore. Ci sono molte maniere di disturbare, una stimolante e una soporifera, ripetitiva, senza grazia, senza dinamica, senza vita. Mi interessa provare a forzare la relazione fra una cosa più ruvida e una più melodiosa, tentarne la trasformazione. La mia ambizione è fare una musica un po’ interrogativa, e credo che anche la relazione fra i due cd lo sia…

La maniera in cui suoni e quella in cui canti sono molto differenti: cosa cerchi nelle due ?

Non ho dominato una tecnica per poi andare oltre: questa è la tecnica. Ci sono molti musicisti che suonano benissimo la chitarra, e da lì partono per andare oltre. Non è quello che faccio io, io cerco di fare di quella cosa stessa una scienza, un’estetica organizzata, una tecnica. Cantando, cerco di imparare a cantare, e allo stesso tempo inserisco elementi di rumore, tecniche differenti. Imparo facendo e ascoltando, sia nel canto che nello strumento, la mia maniera è apprendere e fare. Credo che la scienza dell’ascolto sia molto importante, imparare ad ascoltare. Io ascolto molta musica, e ho imparato a sentire. Non suono nessuno strumento armonico, ma con l’esperienza, ascoltando, ho imparato molto sull’armonia. Lavorando in studio, producendo dischi, si ascolta con molta attenzione. Io non so creare armonia, ma so distinguerne gli errori.

Nel corso della tua carriera hai collaborato con molti artisti…

Credo che la musica sia un’arte molto sociale, si fa musica con altre persone ed è ugualmente importante la relazione col pubblico. Credo sia naturale.

Cosa vedi oggi nella musica brasiliana?

A Rio e a Sao Paulo adesso c’è molto interesse per la musica improvvisata, e in tutto il Paese cresce l’interesse per quella strumentale, mentre alcuni artisti stanno maturando in una maniera molto stimolante. Penso a Siba, o a Juçara Marçal, la cantante dei Meta Meta, che ha appena realizzato un album solista, Encarnado, molto buono.

Una delle tue caratteristiche principali è la ricerca attraverso l’improvvisazione…

Ho sicuramente improvvisato in molte maniere, ma se ho uno stile improvvisativo, questo si è forgiato insieme ai musicisti di NY all’inizio degli anni 80. Lo stile di improvvisazione che si suonava allora a NY non mi piaceva, era privo di dinamica, molto basato sul concetto di texture, non aveva molto ritmo, né volume. Quando ho cominciato a improvvisare, ho provato a fare una cosa diversa, con dinamica e ritmo, e con silenzio.

La tua maniera di fare musica mi ricorda Nelson Cavaquinho, un sambista molto «diagonale» che è diventato un classico…

Adoro Nelson Cavaquinho, l’ho ascoltato molto. E interessante, perché fra i sambisti è quello che maggiormente assomiglia a un bluesman, per il suono, l’attitudine, i testi così negri, pesanti. Joao Gilberto, al contrario, a volte leva le parti del testo più pesanti – per esempio su Estate di Bruno Martino non canta «odio l’estate». È molto strano che faccia così, si può interpretare come una nevrosi, o semplicemente un pudore borghese.. succede anche in Sampa di Caetano Veloso, ma per una questione di armonia. Ha questa follia di togliere parti delle canzoni, ma quello che fa è una miscela fantastica, fa ciò che vuole e allo stesso tempo è molto rispettoso, persino troppo…per esempio, non cambia mai l’accento delle parole cantando, deve essere quello giusto, naturale. Sono molto legato a Joao, e credo che questa faccenda di cantare quasi come se si stesse conversando, è un grande contributo alla musica. È uno dei miei eroi. A proposito delle riletture dei samba di Nelson Cavaquinho, penso che la maggior parte dei musicisti partano non dalla maniera in cui lui faceva musica, ma dalla musica scritta, come fossero samba convenzionali. E adoro Batatinha, uno che faceva melodie bellissime e testi di una bellezza folle.

La tua musica tanto fisica e potente sta in una linea molto sottile. Come entra tutto in così poche note?

La musica è attenzione, attenzione di chi la fa e di chi la ascolta. Giacinto Scelsi usava pochissime note, e con quelle apriva un mondo intero. Adoro la sua musica, e anche il personaggio che lui ha creato, era il David Bowie della musica classica, ha inventato un mito.

«L’enciclopedia», pur se ironica, segna il momento di fare il punto sulla tua carriera?

Non so come rispondere, è interrogativa anche questa scelta. Mi hanno suggerito di fare una compilation, e io ho proposto di metterci dentro anche quello che ho fatto dal vivo, recentemente. Mi ero chiesto come rispondere a questa domanda, ma non è stato programmatico, non così tanto monografico, non è completo, è più nella tradizione dei Greatest hits del mercato pop… ti ricordi il Greatest hits dei Throbbing Gristle?

Quello dei Throbbing Gristle era un finto greatest hits, molto provocatorio. Sono ancora possibili provocazione e radicalità?

La provocazione – come quella dei Throbbing Gristle con il loro finto GH – è diventata tradizione, ma non credo si sia esaurita, è sempre possibile. La più interessante recentemente è nella moda, nel «normcore» degli hipster che, ironicamente, usano i vestiti più normali possibile. Ovvero, la prossima moda sarà nessuna moda, vestirsi come i propri genitori, con i «dad-jeans», i jeans che ha usato Obama, il cappello da baseball più basico possibile. Usare il normale come strano, un’attitudine che è stata radicale è oggi uno scherzo nella moda, su internet. La perdita di radicalità è interessante. Credo che sia sempre stato così, la storia è lunga, dobbiamo guardare oltre i nostri riferimenti, anche il romanticismo era percepito come molto radicale quando è apparso. Trovo la novità stimolante, ma non è l’aspetto principale dell’opera. Per tutte le generazioni a una certa età è importante leggere Rimbaud, ascoltare Hendrix. Non ci sono tutti gli stessi significati nelle diverse generazioni, ma ce ne sono di immutabili, che funzionano per tutti alla stessa età. Anche nella scienza, le leggi che usiamo per spiegare le cose, a volte cambiano.Le condizioni specifiche che sono state necessarie per la creazione del mondo sono in qualche modo casuali, forse esistevano altre leggi, magari molto semplici, che noi non riusciamo a vedere da qui, magari la forza di gravità era differente. Ho un figlio di 9 anni, e sono preoccupato per come sarà il mondo per lui. Credo che per loro siano necessarie delle scelte radicali meno individuali e più sociali di quanto sia successo a noi, alle generazioni che li hanno preceduti. Noi ci auspicavamo che il mondo cambiasse attraverso la somma di tanti atteggiamenti individuali, mentre loro devono agire forti cambiamenti sociali, collettivi. È talmente ovvio che è necessario.