Rorà è un piccolo paese di montagna in Piemonte. Qui si intrecciano le storie di Resistenza valdese e partigiana, fra la pietra di Luserna e i fitti boschi verde scuro.

Prima di arrivare al borgo montano la ripida statale incrocia Stone Oven House, la Casa col Forno sul crinale di una montagna. Due grandi costruzioni antiche e un fienile, centro di un progetto di residenza per artisti da tutto il mondo. Sergey Balovin insieme alla sua compagna Claudia Baccato scelgono un tema ogni anno che diventa stimolo per la ricerca di chi decide di fermarsi a creare, scrivere o progettare qualche settimana a Rorà.

Da quando le prime bombe hanno squarciato il cielo di Kyiv qualcosa è cambiato anche qui. Sergey è russo, europeo di adozione e appena l’invasione dell’Ucraina diventa realtà, decide che è il momento di fare qualcosa: «Sono stravolto dalla prima ora del conflitto – racconta – e anche ora che la guerra diventa odiosa routine resto sotto choc. Non mi aspettavo succedesse questo. In un certo senso sentivo che la Russia si sarebbe isolata fino a diventare una sorta di Corea del Nord però questa mostruosità era inimmaginabile».

La decisione è presa rapidamente. La Casa con il Forno si trasforma fin dai primi giorni dell’invasione in un rifugio per chi scappa. Per chi scappa dalla guerra e per chi scappa dalla Russia di Putin. «Abbiamo ospitato due famiglie ucraine. Una è già partita cercando una sistemazione permanente in Italia. L’altra è ancora qui – racconta Sergey – Sono quattro nonni con i nipotini. Sono contenti di essere accolti in una dimensione familiare ma nello stesso tempo si sentono umiliati per aver perso la loro indipendenza. Organizziamo pranzi e occasioni di ritrovo a cui partecipa anche la popolazione di Rorà per cercare di farli sentire dentro una vera comunità».

Seduti accanto ai rifugiati ucraini ci sono alcuni artisti russi fuggiti dalla repressione. La situazione in Russia si sta rapidamente deteriorando. «Gli artisti scappano perché non si può più fare praticamente nulla», spiega Sergey. Abbiamo chiacchierato con due ospiti russi di Stone Oven House. Polina è arrivata da Krasnoyarsk in Siberia assieme al suo compagno. Artisti visivi, legati a una ricerca astratta con il medium fotografico ma anche insegnanti e professionisti dell’immagine commerciale.

«Dovete sapere che la nostra città siberiana è abbastanza isolata da tutto, lontana dal potere – precisa Polina – ma comunque subito dopo lo scoppio della guerra è andata crescendo quell’atmosfera di paura che si respirava già prima. La paura di parlare». Polina racconta che pochissimi ormai osano discutere di politica e che i coraggiosi che si arrischiano vengono spesso additati come emarginati sociali.

«Poco prima di arrivare in Italia stavamo lavorando a un progetto sulla nostra città in collaborazione con il museo di Arte Contemporanea locale – ci racconta Polina – ma siamo stati presto liquidati con la frase “siamo stufi di sentire parlare di politica, vogliamo vedere la bellezza!”. Una chiara scusa. Il problema è che non si può mettere in discussione più nulla (noi lavoravamo sull’ecologia, la politica e il potere) per via delle ambizioni personali di Putin e del suo entourage».

Polina Mordvinov e il suo compagno Vladimir trascorrono le loro giornate circondati dalle belle montagne di Rorà, lavorano nel giardino di Claudia e Sergey, aiutano a tagliare la legna e a costruire ciò che serve. Ci raccontano delle cena condivise con le due grandi famiglie ucraine: «Non c’è alcun dubbio che gli ucraini stanno soffrendo enormemente. Il rumore del fuoco, la devastazione delle bombe e la morte. Questo noi non lo vivevamo in Russia. Ma qui adesso mangiamo tutti insieme e ci confrontiamo in pace. Tutti condividiamo gli stessi sentimenti di pesantezza, delusione, confusione e smarrimento. Siamo riusciti anche a organizzare alcuni streming su Facebook e su Vkontakte (social russo, ndr) per cercare di raggiungere anche chi si trova ancora in Russia e dare loro il modo di sentir parlare gli ucraini e fare breccia nella nebbia della propaganda di Putin».

Kirill (che preferisce restare anonimo) invece è un musicista e corista di San Pietroburgo, arrivato a Rorà l’8 marzo scorso via Istanbul. Abituato a un buon salario, ottime opportunità in Europa e con l’impressione che la politica non dovesse ostacolare il suo percorso artistico, sente come sgretolarsi una benda sugli occhi. «Vivevo in un mondo parallelo – dice Kirill – Tutto è crollato dopo il 24 febbraio. L’Ucraina era ed è per me terra di famiglia. Mia zia vive a Kherson. Un paese di amici. San Pietroburgo aveva un’atmosfera di tranquillità, piena di persone intelligenti e colte. È tutto sparito. Soltanto la paura rimane. La paura di essere bastonati dalla polizia per aver pronunciato la parola guerra».

Kirill ci racconta di come alcuni suoi amici musicisti che lavorano in importanti teatri e sale concerti russe siano stati cacciati dal lavoro solo per aver interpretato con la musica sentimenti di pace: «Il direttore di una famosissima orchestra è stato punito per aver dato risalto al finale della Nona di Beethoven. Moltissimi musicisti sono costretti a suonare in supporto dei soldati russi. Piegare un artista e obbligarlo a usare la sua creatività per fare propaganda è qualcosa di estremamente crudele e disumano».

Non soltanto diaspora russa degli intellettuali. C’è anche chi non ha ancora lasciato il paese. Anastasya ad esempio vive tuttora a Mosca. Artista poliedrica e insegnante, preferisce non dare il suo nome completo. «Ho scoperto della guerra da una mia amica a Kyiv. Ho ricevuto un suo messaggio la mattina, “ci bombardano” – racconta Anastasya – e mi è crollato il mondo addosso. Da quel giorno ho iniziato a seguire le news su Meduza (giornale indipendente di Riga in russo. Oggi consultabile soltanto modificando il proprio Vpn poiché oggetto di censura sul territorio russo, ndr), e attraverso alcune pagine Instagram. Mi sono iscritta a un movimento femminista pacifista e quando posso fornisco aiuto ai detenuti politici. Ma nello stesso tempo mi sento una codarda: da alcuni giorni per paura non riesco a scendere in piazza».

Anastasya oggi si ritrova con altri artisti seguendo esclusivamente un circuito ristretto di conoscenze. Il rischio è enorme. Un suo amico è stato denunciato dal direttore della scuola per «pensieri antimilitari» e la polizia si è recata alla sua abitazione per un colloquio preventivo, alcune persone si sono ritrovati una Z scritta sulla porta di casa, un prete è stato denunciato per «sermone pacifista». «La macchina repressiva si allarga ogni giorno di più – dice Anastasya – Oggi sappiamo che la polizia usa le telecamere di sorveglianza e il google russo Yandex. Passa le informazioni dei suoi utenti al governo. Alcuni artisti mi suggeriscono di pensare alle cose belle e infischiarmene della guerra ma io non ci penso neanche. Vorrei fare di più. Vorrei restare qui e usare la mia arte per cambiare qualcosa».

Anastasya si pone però dei dubbi sulla decisione occidentale di chiudere i social come Facebook e Instagram o i siti degli artisti russi nel dominio web europeo: «Così ci private della voce. Bisognerebbe fare dei distinguo perché non tutti sono con Putin, specialmente nel mondo dell’arte. La voce del dissenso russo è essenziale». La situazione è tesissima e il supporto a Putin arriva dai ricchissimi ma anche dai poveri. Un sostegno ancora forte: «Sono tutte persone che si stanno arroccando sull’idea di aver ragione – sostiene Anastasya – Non vogliono ascoltare altre campane: farlo significherebbe mettere in discussione quello che si è creduto vero fino a ieri».

Anastasya ci saluta rivolgendosi agli ucraini sotto le bombe: «Ci sono molti più russi al vostro fianco di quelli che si possono vedere o sentire. Mi addormento sognando la pace e mi sveglio con il desiderio che questa guerra finisca presto».