Cominciamo dalla pietra dello scandalo: lo Stato paga gli artisti per non lavorare. Domandiamoci, ora: perché lo Stato paga gli artisti per non lavorare? Da che mondo è mondo, se qualcuno paga è perché vuole qualcosa in cambio.

Ma se lo Stato si accontenta di ricevere in cambio il non lavoro degli artisti, ciò vorrà dire semplicemente che lo Stato vuole in cambio che gli artisti non facciano gli artisti. Concludiamo geometricamente che lo Stato paga gli artisti perché la facciano finita. Chiarito questo punto, possiamo procedere oltre.

Lo Stato non è cattivo. Non è nemico. Il fatto che stia investendo soldi per far finire le carriere degli artisti va compreso come un atto di liberazione. Diciamolo, molti artisti non sopportavano di esserlo e questa potrà essere per loro l’occasione per riscoprire la professione che avevano abbandonato, i sogni che avevano messo da parte al momento di decidere il loro mestiere.

Quanti hanno dovuto rinunciare a una malcerta ma appassionata carriera da ragioniere, perché la famiglia voleva i guadagni solidi e la carriera sicura dell’artista?

Quanti hanno pianto quando hanno scoperto che non erano destinati alla scrivania di un ufficio assicurativo? Ecco, questo è il momento per riprendere in mano le aspirazioni di contabilità che abbiamo messo da parte.

Per prima cosa, serve ripensare, anzi direi: riqualificare, la morte. La morte professionale è davvero un’occasione di riscatto per l’artista, di più: la morte per l’artista è il salto di carriera. Basti pensare che alcuni artisti morti a volte diventano famosi. Insomma, bisogna guardare alla morte come a un passaggio di stato: nella natura tutto muore, anche gli artisti. Solo che per convincerli, serve pagarli. L’artista non capisce che solo autosopprimendosi in quanto artista, lavorerà meglio. Oggi per lui è essenziale accontentarsi di morire.

L’unico modo che l’artista ha oggi di sopravvivere è fare di sé una maceria, rendersi in un futuro prossimo visitabile, passibile di essere messo in teca. Che la paleontologia sia ormai la disciplina più indicata a trattare oggi dello stato dell’arte è cosa arcinota. Basti pensare ai dinosauri.

Nessun artista vivente ha ancora capito che i suoi veri competitor sono i dinosauri e se vuole davvero sopravvivere deve rubare loro qualcosa di quella giurassica virtù di estinzione.

I dinosauri hanno saputo vendersi, sono stati i primi a fare della loro estinzione un business. Nessuno come il brachiosauro sa che c’è vita economica dopo la morte. Gli artisti dovrebbero eleggere i dinosauri come loro paradigma economico di riferimento e fare così del loro cadavere, un’attrazione turistica. I musei vanno letteralmente matti per qualsiasi osso databile a qualche milione di anni fa. All’artista basterà autoseppellirsi e aspettare, sicuramente prima o poi lo riscopriranno, lo dateranno e avrà anche lui il suo bel posto in un museo.

Il mesozoico non delude mai.

Ma se vogliamo guardare più al caso italiano, bisogna pensare a Pompei. Pompei era una città anche piuttosto bruttina, un Poggi Bonsi dell’impero romano. Ma ecco che recupera in fama, non appena si fa seppellire di cenere e lapilli. E tutto perché aveva investito sulla sua estinzione, perché non c’è niente di più profittevole della morte. Non esiste al mondo reperto archeologico o maceria più esperta di economia, delle diroccate pietre di Pompei. Fiutando l’affare, qualche narcisista si è gettato nel magma per raffigurare oggi come sagoma calcarea (non ho dubbi che fossero attori dell’epoca).

Guardare alle pietre, ecco il segreto. L’Italia è una distesa infinita di tumuli e macerie. E gli italiani adorano qualsiasi cosa sia passata e demolita. Avevo un amico che frequentava solo necropoli etrusche, per non parlare della vera e propria ossessione nostalgica degli italiani per quel catalogo di pietre che è il Foro romano. Subiscono il fascino della scoria.

L’arte vive tuttora all’ombra delle pietre, che hanno un vero e proprio strapotere. Basti pensare alla differenza tra i flussi di turisti attratti dai reperti del passato e a quelli interessati all’arte contemporanea: una disparità incolmabile. Ed allora ecco la lezione che l’artista può apprendere dal presente: abbandonare il corpo. Il corpo ha una durata limitata, in media di sessant’anni di attività: il corpo è di nicchia. La pietra invece fa subito arte popolare e non smette mai di lavorare, perché la pietra non va in pensione.

Certo capisco che non è facile per tutti cambiare da un giorno all’altro, ma bisogna convincersi che è meglio così. Bisogna fare di sé un oggetto preistorico, un articolo di antiquariato. Bisogna far fruttare la propria rovina.

Artisti di strada a Praga nell’aprile 2020, foto Ap

 

In molti settori dell’arte, è già in atto questa mineralizzazione. In questo modo, l’artista si trasforma in fonte di reddito. Ha una seconda chance. Alcuni diventano degli splendidi blocchi di granito, per esempio. Per l’artista questa trasformazione è conveniente: basti pensare che le più grandi vette artistiche sono state raggiunte proprio dai minerali -la Pietà di Michelangelo, se non sbaglio, è di marmo.

Ma basta uscire di casa e chiederlo a certi imponenti calcestruzzi, a certe liete ceramiche. Che sia il settore edile o quello dell’arredo casalingo, il minerale trova sempre una sua collocazione professionale. Per chi invece fosse più scettico sugli usi commerciali, potrà sempre abbandonarsi a quello paesaggistico, depositandosi dove capita, sulle Alpi o gli Appennini. Con alcuni di loro si farà grafite per le lavagne, con altri ceramica per i wc. Chissà, magari con gli altri artisti in esubero si faranno pure delle solenni lapidi.

Ieri sono uscito per strada e ho raccolto un sasso e per poco non ho riconosciuto che era un collega, tutto orgoglioso della sua metamorfosi geologica. Ora sì che potrà dedicarsi ad un eterno ciclo lavorativo, col minimo rischio di erosione. Meglio l’erosione, della disoccupazione. Mi ci metto a chiacchierare e mi dice che sta ancora aspettando un impiego, ma è fiducioso. Ha lavorato un po’ come gesso in una classe, dovrà fare una comparsata come bitume sulla A1 e forse nel finesettimana lo mettono in teca al Pigorini, come amigdala.

Solo come maceria può permettersi di essere l’artista che non è stato.

Da allora, ho preso l’abitudine di riempirmi le tasche di colleghi per strada e me ne vado in giro con i pantaloni pieni di pietre in attesa di occupazione. Il Ministero ha rassicurato tutti i candidati, dicendo che molti artisti saranno presto messi a regime di pavimentazione. Con loro si risolverà il tanto chiacchierato problema delle buche a Roma, così che gli artisti che non hanno potuto nel 2020, debutteranno nel 2021 nelle fosse. I problemi di urbanistica risolti così, poeticamente.

Per strada fateci più caso al sublime bitume, fatto tutto di artisti ossidati.

Oggi il mecenatismo si fa con le buche.

Recentemente ho parlato con un ex collega, ora riqualificato blocco di travertino, e lui è convinto che presto non si ritroverà un artista che non si reinventi come maceria, colonna, scalino o mosaico.

Gli fa eco un altro, che vanta di essere un silicio competente “Si calcificheranno a migliaia. Tutti hanno capito che il vero successo si raggiunge solo allo stato fossile. Bisogna trovare il proprio posto nel sottosuolo.” Manca in effetti un serio sindacato delle pietre, che redistribuisca le mansioni, a ciascuno la sua quota di estinzione. Ma tutto al suo tempo.

E chissà, penso, che magari le tanto chiacchierate “polveri sottili” che infestano l’aria non siano proprio loro, molecole aeree di attori, pulviscolo minerale di compagnie teatrali, sfollato plancton di artisti.