Due oggetti presenti nell’immaginario picassiano – equilibrata fusione della visione artistica con l’aplomb del personaggio – sono certamente il pesce nel piatto con la forchetta e la maglia a righe da marinaio, quest’ultima non solo indumento amato dal grande artista (gliela vediamo indossare in molte fotografie, ad esempio quelle scattate da Robert Doisneau o David Douglas Duncan), anche soggetto di diverse sue opere, tra cui certamente il disegno Homme en tricot rayé (1939). Quanto al pesce intero con il limone è la dichiarazione di un’altra nota passione di Pablo Picasso (1881-1973), come ci ricorda il ricettario À la table de Picasso: Le goût de la fête (1996). Gourmet dal palato fino che provava altrettanto gusto per la cucina della tradizione popolare (con l’omelette alla Spagnola al primo posto), il visionario interprete del Novecento amava sperimentare linguaggi, tecniche e materiali in una costante ricerca della semplificazione. È con questo spirito, tra curiosità e rigore, che egli si avvicinò alla ceramica. Tra le opere esposte nella mostra Artifices instables. Storie di ceramiche, curata da Cristiano Raimondi a Villa Sauber – Nouveau Musée National de Monaco (fino al 21 febbraio 2021), sono presenti anche i due pezzi modellati in terra bianca Main (1950-51) e Poisson, fourchette et rondelle de citron (1955), provenenti dalla Fundación Almine y Bernard Ruiz-Picasso para el Arte di Madrid.

Passaggi di stato
Il primo – la mano capovolta – è stato realizzato nel laboratorio Madoura a Vallauris, nel dipartimento francese delle Alpi Marittime. In quest’officina della creatività, frequentata tra gli altri da Marc Chagall, Henri Matisse e dal monegasco Albert Diato (attivo anche a Faenza, Milano e, tra uno spostamento e l’altro in Afghanistan, dove su richiesta del re Zaher Shah, tra il ’67 e il ’71, si prodigò nel tentativo di far rinascere le tradizionali ceramiche smaltate a mano di Istalif), nel 1946 avvenne il magico incontro tra Picasso e i ceramisti Suzanne e Georges Ramié. Il sodalizio durò fino al ‘55. Svincolata dalla necessità di rispondere al codice funzionale del manufatto di uso comune, la ceramica in quanto materiale inorganico argilloso che si presta alla metamorfosi nel passaggio da uno stato all’altro (inizialmente duttile e malleabile diventa rigido dopo la cottura, mantenendo tuttavia il carattere intrinseco di fragilità) nelle mani degli artisti supera le barriere della prevedibilità, portavoce del legame fortissimo con l’antico che viene interiorizzato, metabolizzato e restituito attraverso visioni autoriali, autonome e non convenzionali.

Con questo intento il curatore (coadiuvato da Julien Rodier e Riccardo Lajolo nella realizzazione dello scenografico allestimento basato sui disegni originali di Adrien Rovero e Ron Nagle nonché, per l’illuminazione, del progetto di Michael Anastassiades/FLOS) mostra nell’edificio Belle Époque il risultato di una ricerca durata quasi due anni, che lo ha portato da Los Angeles a Faenza, passando per Parigi e la Costa Azzurra. Osservando dal vivo, sia nelle collezioni private che museali, i pezzi dei grandi artisti del 900 (oltre ai già citati Picasso e Diato, un’altra figura di spicco è quella di George Ohr, il «vasaio matto di Biloxi» riscoperto negli anni ’50 da Jasper Johns e Andy Warhol) e visitando gli atelier degli artisti contemporanei, Cristiano Raimondi per questa stimolante mappatura dei territori della ceramica creativa ha selezionato 120 opere diverse tra loro, per stile e processo di lavorazione, in cui, tuttavia, la materia prima si esprime con la stessa intensità in tutto il suo potenziale seduttivo.

Arte minore?
Liberarsi dal cliché di «arte minore», quindi di produzione artigianale, ha richiesto l’ingegno, la passione e la costanza di forti personalità che hanno spesso dedicato la vita intera, sulla scia delle parole di Gauguin per il quale «la ceramica non è futile». Nei testi di Cecilia Canziani, Valérie Da Costa, Chus Martinez, Agnés Roux e lo stesso curatore, pubblicati nel catalogo che accompagna la mostra, co-editato da NMNM e Mousse, vengono indagati anche aspetti legati al folklore e all’imprenditorialità turistica del principato di Monaco con la promozione del territorio attraverso pionieristici oggetti-souvenir sfornati dalla Fabrique de Poteries Artistiques de Monaco (creata appositamente nel 1874) e, successivamente, attraverso le creazioni del ceramista francese Eugène Baudin, con tripudi di fiori colorati, limoni e uva, rappresentati spesso nella texture di un canestro di paglia. Oggetti che venivano esposti in occasione delle Esposizioni Universali, fin dalla prima edizione viennese nel 1873.

Spostandoci nello scenario della ceramica contemporanea, se la matrice zen giapponese (a cui si somma l’omaggio a Giorgio Morandi) dei «teatrini» di Ron Nagle porta l’osservatore in una dimensione raccolta di grande armonia ed equilibrio formale, le icone pop disneylandiane di Magdalena Suarez Frimkess sono il frutto di una contestazione socio-politica in cui la produzione di massa viene ridefinita attraverso l’individualità dell’artifex.

Archetipi
Alle superfici colorate dei vasi di Brian Rochefort che restituiscono l’idea del magma e l’irruenza del caos di affioramenti imprevedibili (nati dallo studio dei tuberi), sembrano avvicinarsi gli assemblaggi «psichedelici» che Aaron Angell sperimenta con gres e smalti autoprodotti. Totemiche le opere di Johan Creten (a Villa Medici, a Roma, la personale I Peccati, fino al 31 gennaio 2021) con un approccio giocoso anche nel mettere in scena l’ambiguità della trasformazione preannunciata dai titoli stessi delle opere, come nella serie di gres smaltato, lustro e platino Odore di Femmina o Le Glands enflammées de Vallauris (gioco di parole tra ghianda e glande).

Tra le opere di Artifices instables la ricerca dell’archetipo accomuna, infine, il lavoro di Simone Fattal e quello di Chiara Camoni. Creature «mitologiche» che arrivano dalla memoria collettiva, attraversano il tempo e le culture, quelle di Fattal plasmate in figure astratte e figurative che esplorano il concetto di archeologia e dislocamento. Un po’ come gli «spiritelli» di Chiara Camoni, vasi che hanno una doppia faccia, realizzati a Montelupo Fiorentino con la terracotta bianca e gli smalti di cenere. Questi oggetti monocromatici che «cambiano d’abito e d’umore» – come afferma la stessa artista – ci riportano alla loro funzione di contenitore: una scultura accogliente.