Mentre l’Expo si chiude all’apice della sua retorica auto-celebrativa, in altri luoghi di Milano si apre Danae Festival, che si contrappone a quel mega evento per logiche progettuali, organizzative e di svolgimento affinate e praticate dal Teatro delle Moire.
Nato nel 1999 per volontà di questa compagnia milanese e con la dedizione di Alessandra De Santis e Attilio Nicoli Cristiani, le due anime del festival, il Danae ha quest’anno compiuto un balzo in avanti, aprendo un confronto diretto con suoi spettatori attraverso una riuscita campagna di crowdfunding che, da un lato, gli ha fornito nuove risorse ma, dall’altro – questo è l’elemento più significativo – gli ha permesso di sondare all’interno della comunità teatrale il livello di attenzione verso un operato fuori dai canoni usuali.

Dedicato alla ricerca scenica e, in particolare, alle arti performative, Danae si è mosso in questa diciassettesima edizione rafforzando la sua dimensione europea, avviata lo scorso anno con l’adesione al network di produzione ibrida, transdisciplinare e di circuitazione e conoscenza «Open latitudes».
Una partecipazione che permette al Festival di affiancare opere e artisti extra-italiani alle sperimentazioni dei «nostri» giovani performer, oggi trasformati in scomodi impedimenti nell’applicazione di una riforma ministeriale tutta concentrata sui teatri nazionali e sui loro numeri impossibili. Il rischio è davvero l’annientamento di ogni vitalità e forma teatrale di confine. Che poi spesso – diciamola tutta – si tratta di arti corporee e di danza, termine urticante per troppi programmatori italiani.

In questo paesaggio riformato nel peggiore dei modi appaiono quindi preziosi i territori in cui l’incontro e la condivisione sono le regole fondanti.
E in diciotto giorni (27 ottobre-14 novembre) Danae Festival, che si è inaugurato con Dragging the Bone, ultima ironica e surreale creazione dell’artista belga Miet Warlop, ha proposto diversi formati e linguaggi, spingendo gli spettatori a una relazione con luoghi teatrali e non, come la Palazzina Liberty, il Café Gorille e Lachesilab. Spazio quest’ultimo delle Moire, in cui le stesse hanno allestito Sante di scena, tra estasi di certe monache medievali e comiche vocazioni di nostre coeve, in cui la fisicità di Alessandra De Santis crea un legame forte tra le azioni di questa difficile ricerca iconografica.

Sul palcoscenico del Teatro Litta, la coreografa e danzatrice greca Medie Megas ha svolto il suo Transforming Me – A Bilingual Solo, sorta di viaggio autobiografico con lo sguardo colmo di un disincanto generazionale, distante da ogni critica politica. Una bella presenza scenica, precisa e delicata, al contrario di un troppo compiaciuto e ancora acerbo Marco D’Agostin, al Did Studio col suo Everything Is Ok.