«Le pareti del cervello non hanno più finestre» cantava Franco Battiato nel 1982 in New Frontiers, ritornello che, come quasi sempre accade nell’opera del cantautore siciliano, poteva e può ancora oggi essere letto in molti modi diversi. Una possibile lettura richiamava al limite a cui il pensiero razionale era giunto, o per meglio dire, al limite che un pensiero basato esclusivamente sulle parole si ritrova ciclicamente a sbattere contro. In un’epoca che sembra privilegiare sempre di più le relazioni mediate e sedentarie, in questi mesi purtroppo non ci sono alternative, non necessariamente un approccio negativo per altro, ritornare al corpo o ripartire dal corpo per «pensare», potrebbe essere un atto rivoluzionario. Un percorso di questo tipo è quello che si può trovare in Filosofia delle arti marziali (Mimesis Edizioni, pp. 216), un volume collettaneo curato da Marcello Ghilardi e che si propone di esplorare la pluralità delle forme e delle discipline del combattimento nate e sviluppate nel continente asiatico. Come viene giustamente fatto notare nell’introduzione da Ghilardi stesso, il libro non vuole e non può essere una mappatura completa di un fenomeno così multiforme e complesso, ma si propone piuttosto di «offrire una lettura plurale, nella varietà degli approcci – filologici, storici, scientifici, filosofici – e nella molteplicità non esaustiva delle discipline prese in esame».

Il volume si compone di tre sezioni, la prima offre riflessioni su alcuni testi cardine, Aldo Tollini traduce e aiuta a decifrare il Trattato dell’arte della spada del maestro Ittosai, un testo scritto da Yoshinao Kotoda nel diciasettesimo secolo che molto ha influenzato le arti marziali dell’arcipelago. Segue un’erudita cavalcata nel Rgveda e nella cultura indiana del sacrificio, affrontata da Krishna Del Toso dal punto di vista della pratica marziale, e da un’interessante interpretazione di un capitolo de Il libro dei cinque anelli scritto dal famoso guerriero giapponese Musashi Miyamoto. Secondo Leonardo Vittorio Arena il libro, e la sezione presa in considerazione in particolare, danno una visione dove il mondo è visto come insignificante e «nudo», ma è proprio in questo nonsense che grazie alla pratica portata avanti dal guerriero «la vita intera diviene meditazione».

La seconda parte del volume si riallaccia più direttamente con quanto scritto in apertura, trovare cioè la filosofia in pratiche marziali «concrete» come l’aikido giapponese e il taijiquan cinese. Uno degli scritti più profondi in questo senso è quello di Marco Favretti sull’aikido, definita come una «pratica in grado di costruire un linguaggio capace di liberare il corpo e consentire l’accesso a una percezione della propria individualità non basata sull’appartenenza a un collettivo sociale o culturale» e di liberare una spiritualità sganciata dalle religioni e che si manifesta attraverso il corpo. Quest’arte marziale, benché nata come scontro violento, si evolve anche in pratica che combatte la violenza alla sua radice, dimostrando e creando la consapevolezza nell’aikidoka di come essa nasca ogni qualvolta ci si imbatta nell’altro da sé e da esso si è intimoriti. Sganciato dalle finalità marziali è anche il moderno taijiquan, antichissima arte marziale cinese che nel corso dei secoli ha assunto forme diverse, o meglio sarebbe dire, fini diversi. Sia essa meditazione in movimento, ginnastica medica o alchimia interiore influenzata dal taoismo esoterico, in questa pratica, scrive Salvatore Giammusso, il corpo si muove nel mondo come un elemento naturale, come l’acqua, o come il vento, e questo perché la divisione fra io e mondo non esiste più. Il lavoro fatto sul corpo è speculare a quello fatto nello spirito, e in realtà non esiste distinzione, nella sua ricognizione sull’incredibile molteplicità di arti marziali cinesi, Luigi Zanini scrive come ciò che accomuna gli stili interni del Gungfu sia proprio la capacità di allenare l’unità di mente, corpo e spirito. Una pratica che rende «l’essere umano altamente aperto e concentrato al contempo, capace di sviluppare nuove abilità e di evolversi (…) L’arte marziale rimane un’autentica autostrada verso la consapevolezza di sé, e il primo mattone è sempre la pratica».

La capacità dell’essere umano di trasformarsi è al centro dell’ultima sezione del volume, dove le esperienze dei singoli autori sottolineano e mettono in evidenza come le arti marziali siano anche educazione. Per Francesca Antonacci esse sono come il gioco, libere e indicano una possibile e vera pratica educativa che si sottragga alla mera trasmissione di un qualcosa da passare come un pacco e quindi anche della logica produzione-consumo. Continua sulle stesse note lo scritto di Andrea Zhok che praticando il karate da decenni, ma avendo anche a che fare con le parole in qualità di professore di filosofia, nota come le parole non abbiano la forza trasformativa della pratica vissuta, condivisa e trasferita attraverso l’insegnamento corpo a corpo. Educare ed educarsi al conflitto ed alla violenza codificata, in un atto scevro dal rozzo machismo e da pulsioni superomistiche, come scrive Ghilardi nello scritto che conclude il volume, significa prima di tutto saper mettersi in discussione attraverso una pratica che costantemente si confronti con l’alterità, «Ogni colpo ricevuto, ogni atterramento, ogni knockout, ogni ippon subìto è un’esperienza di morte dell’io; imparare a reggere tale frustrazione, senza poi reagire in maniera incontrollata, è un tipo di insegnamento a maggior ragione fondamentale, in un’epoca in cui molti disagi psichici dipendono proprio dall’incapacità dei soggetti – spesso adolescenti, ma non solo – di gestire il fallimento, la frustrazione, le ferite narcisistiche».