Eleonora Artesio, capogruppo in Sala rossa di «Torino in Comune», che nel 2016 aveva raccolto le formazioni a sinistra del Pd, ha un punto di vista privilegiato per analizzare i cinque anni della giunta Appendino e l’avvio della nuova campagna elettorale. Figura storica della sinistra torinese, è entrata giovanissima in consiglio comunale, nel 1975, in coincidenza con il voto ai diciottenni, ai tempi della prima giunta Novelli, ed è stata poi assessora comunale all’Istruzione e regionale alla Sanità.

Si sta concludendo la legislatura Appendino, com’è stata rispetto alle ambizioni iniziali?

La frase più comune, e più abusata, è che la maggioranza 5s abbia deluso le aspettative. In realtà, già nei primi due anni si era delineata una natura specifica della sindaca, forse la stessa che le ha consentito di vincere al ballottaggio, che non possiamo solamente ascrivere ai 5s, ma al fatto che c’è stato un orientamento di ceti medi e di opinion leader nel considerarla garante di un certo status quo. Intanto nel non mettere in discussione il funzionamento finanziario della città. L’operazione di rivisitazione del debito pubblico e di contestazione della sua ingiusta natura è stata rimossa dall’amministrazione Appendino, che nel dicembre del 2017 ha adottato il piano di rientro con gli stessi strumenti di qualunque piano precedente: vendita del patrimonio pubblico e contenimento della spesa corrente. Solo accompagnati dalla litania del «vorrei ma non posso».

Il tema delle due città, della distanza tra centro e periferia, aveva dominato la scorsa campagna elettorale. Qual è la situazione ora, con una pandemia ad aumentare le disuguaglianze?

Penso che una parte del successo di Appendino sia stato dovuto al fatto che il M5s è stato sostenuto anche persone non affini al movimento, che ritenevano potesse contenere un conflitto sociale inevitabile e non gestibile dalle forze del centrosinistra. E c’è anche stato un affidamento sincero delle periferie. I dati delle disuguaglianze, però, parlano da soli. La maggioranza non è riuscita a trasferire l’idea di città diffusa. Ci sono stati piccoli interventi, altri in cui ci si è accontentati di raccogliere le sollecitazioni dei privati, ma non c’è stata un’idea complessiva di città. E, dal punto di vista delle politiche sociali, c’è stato un continuismo adattato. Sui servizi educativi e sulle politiche sociali anche questa amministrazione è stata dipendente dalle disponibilità di risorse delle fondazioni bancarie.

Quali sono i principali problemi che sconta ora Torino?

È sempre in ballo il tema legato alla riconversione della tradizione manifatturiera. Il dato delle condizioni socioeconomiche non è però mai interessato a un M5s poco permeabile alle questioni del lavoro. Milano e Bologna hanno costruito tavoli per la carta dei diritti digitali, mentre a Torino, dove i rider hanno imbastito una causa, il Comune non è diventato il perno di un’iniziativa di sensibilizzazione e affiancamento. Torino vive sempre l’ansia di diventare capitale di qualcosa, dell’intelligenza artificiale o della cultura europea, perché ci hanno abituato al fatto che i comuni devono competere tra loro e non cooperare. Queste iniziative, però, non riconnettono la città, che dovrebbe piuttosto valorizzare il suo capitale legato alla dimensione sociale, che in passato ha avuto un ruolo centrale, grazie al movimento operaio e alle sperimentazioni su temi come la sicurezza sul lavoro. La Torino sociale esiste tuttora nelle forme organizzate del terzo settore, ma manca una regia.

Non si ripresenterà alle elezioni. Come vede la nuova contesa?

Ai tempi della giunta Fassino, la scelta contestata di dare in affidamento esterno gli asili nido produsse un movimento, con rapporti tra insegnanti, sindacati e famiglie. Abbiamo portato avanti diverse battaglie anche in questa legislatura, ma la sinistra organizzata non sembra in grado di intercettarle. Non è nemmeno detto che la delusione nei confronti della giunta Appendino porti a un ritorno del centrosinistra. L’opposizione del Pd è stata giocata sulla nostalgia: «Vi votiamo il piano per la Cavallerizza perché è lo stesso a cui avevamo pensato noi». È mancata la proposta. Bisogna, invece, riconquistare fiducia su proposte credibili. Noi spunti ne abbiamo dati.