Si racconta che il pittore Giovanni Francesco Romanelli nutrisse una sincera ammirazione per Artemisia Gentileschi e che di lei conservasse con particolare cura un bellissimo ritratto. Si comprende lo sconcerto che lo colpì un giorno quando, tornando a casa, trovò la tela strappata e il dipinto, onore alla bellezza e al carattere della collega, sfigurato. Era stata la moglie a ridurre il quadro in quelle condizioni, vinta dal risentimento per quell’immagine di donna libera e determinata.

L’episodio è davvero curioso e non stupisce che Filippo Baldinucci lo abbia posto al centro della biografia della Gentileschi. Ma c’è molto di più. Artemisia fece del raccontare con disinvoltura storie di tragica umanità la sua cifra stilistica: Giuditta che decapita Oloferne, Medea che uccide il figlio, Giaele che pianta un chiodo nella testa di Sisara, Cleopatra che porge il petto al morso di un aspide. È su quadri di questo tipo, fatti di istantanee di cruenti delitti e di perfide dame nere dalla lama infallibile, che fondò la sua fama presso i contemporanei. E ancora oggi è quel contrasto straniante tra bellezza e violenza, tra la grazia delle forme e l’efferatezza dei gesti a rendercela familiare. L’aneddoto del Baldinucci assume, quindi, il tono del paradosso: l’immagine della pittrice della violenza al femminile finiva essa stessa vittima dei colpi di una donna.

Fine guardaroba di seta

È difficile trovare nella storia dell’arte nomi tanto popolari quanto misteriosi. Artemisia Gentileschi, sicuramente la più celebre pittrice consegnataci dal XVII secolo, è tra questi. È stato detto e scritto tanto sul suo conto ma, strano a dirsi, di lei sappiamo davvero poco. A un secolo esatto dalla riscoperta di Roberto Longhi, la sua vicenda umana resta lastricata di incertezze. La scarsità di notizie, unita alla difficoltà di definire univocamente il variegato panorama delle sue opere, ha favorito lo sprigionarsi di interpretazioni arbitrarie e prospettive ingannevoli. E così l’artista è rimasta sospesa in un limbo atemporale, di volta in volta oscillando tra l’essere la quota rosa del caravaggismo e l’archetipo di un improbabile femminismo d’ancien régime.

Avviene così che Artemisia, riportata in vita e consacrata come eroina romantica ante litteram, solo in tempi recenti abbia conosciuto una valutazione più adeguata. Ogni occasione di incontro a tu per tu con i suoi quadri diventa per questo preziosa per conoscerla meglio. A quindici anni dalla fondamentale Orazio e Artemisia Gentileschi (Roma, New York, Saint Louis), un nuovo punto di sintesi sulla pittrice viene oggi offerto dalla mostra Artemisia Gentileschi e il suo tempo (Roma, Museo di Roma, fino al 7 maggio). Non una semplice monografica, sia chiaro. L’itinerario riflette l’ambizione di recuperare uno specifico spaccato dell’arte italiana, coincidente con gli estremi cronologici della Gentileschi (1593-1653) e con le città in cui operò. I curatori raccontano, ognuno per la propria parte (Judith Mann per Roma, Francesca Baldassari per Firenze e Nicola Spinosa per Napoli), i debiti e i crediti dell’artista con quei contesti culturali. Di sala in sala si susseguono, quindi, intorno a trenta opere autografe, maestri e comprimari del primo Seicento che influirono o subirono la sua influenza: da Giovanni Baglione e Antiveduto Gramatica a Cristofano Allori, Simon Vouet e Massimo Stanzione.

Tutto ebbe inizio a Roma. Dietro le quinte dell’atelier del padre Orazio, amministratore esigente del suo talento, Artemisia mosse i primi passi e imparò a maneggiare pennello e colori. Forte dell’appartenenza a casa Gentileschi, «il più fine guardaroba di seta del Seicento europeo dopo Van Dyck», come lo definì Longhi, la pittrice fu educata a riconoscere la bellezza delle cose e a riprodurla con ogni mezzo. Sin da subito la sua fantasia fu messa in moto dal corpo umano, specie quello femminile di cui s’impadronì studiandosi allo specchio. Nacquero così opere di sensazionale splendore e dal sapore programmatico come la Susanna e i vecchioni di Pommersfelden e la Danae del Saint Louis Art Museum.

È da credere che Artemisia avrebbe proseguito su questa strada, paga di essersi fatta largo nella bottega paterna. Come sappiamo, le cose andarono diversamente. Il clamore del processo ad Agostino Tassi, colpevole di averla stuprata e aver mancato la promessa di matrimonio, la costrinse a lasciare Roma per Firenze. Quel fatto cruciale, per paradosso, le schiuse nuove possibilità. La capitale del granducato fu per lei, infatti, tutto tranne che un esilio. Qui conobbe una libertà che non aveva mai avuto. Non era più la figlia di Orazio, ma conosceva una discreta fortuna fondata sul suo valore personale. Poteva finalmente soddisfare ambizioni fino ad allora fuori dalla sua portata e fortificare una rete di amicizie che andava da Michelangelo Buonarroti il giovane a Galileo Galilei. Non è possibile dimenticare poi che a Firenze Artemisia fu ammessa, prima donna nella storia, all’Accademia del disegno.

Abilissima nel riposizionarsi sul mercato dell’arte, in Toscana Artemisia cambiò pelle. Con le opere di questa stagione dichiarava la sua indipendenza dal naturalismo paterno sulla scia della pittura sentimentale di Cristofano Allori e del Cigoli. Coloriva le opere di un accento nuovo, costruendo immagini di forte impatto visivo come la Giuditta e Oloferne del Museo di Capodimonte e la Conversione della Maddalena degli Uffizi. Il dato evidente di questa sezione, in parte celebrato già da una mostra del 1991 a casa Buonarroti, è che Artemisia fu a Firenze non solo per imparare, ma pronta a uno scambio reciproco con i più giovani colleghi toscani. Ricorrono sulle pareti di palazzo Braschi opere di Giovanni Bilivert e di Rutilio Manetti, fino a confronti con quadri di Francesco Furini, Bartolomeo Salvestrini e Giovanni Martinelli.

Velatura brumosa

Determinata al successo, Artemisia unì sensibilità pittorica a eccezionale irrequietezza. Il suo cammino proseguì, anzi ricominciò da Roma. In patria l’artista licenziò le sue opere più iconiche come la Giaele e Sisara del Museo di Belle Arti di Budapest, frutto di uno stile rinvigorito dalla conoscenza di Simon Vouet. Tra le opere di grande qualità e interesse che si possono vedere in mostra c’è anche il bellissimo Ritratto di gonfaloniere di Bologna, dagli occhi neri e penetranti e un calore e una sincerità che incantano.

Continuando nella narrazione, la mostra celebra, infine, l’estrema stagione professionale a Napoli. Nella Vicereame spagnolo Artemisia divenne lei stessa maestra di pittura (si spiega così la presenza di quadri di Bernardo Cavallino, Francesco Guarino e Antonio De Bellis) e finalmente potè mostrare ciò che sapeva fare in pubblico, riscoprendosi sensibile alle seduzioni caravaggesche. Lo fece però in maniera nuova, sostituendo l’atmosfera cristallina degli inizi con una velatura brumosa, aiutata dall’uso di una pennellata libera e irrequieta.

Un accurato catalogo, edito da Skira, completa e perfeziona i presupposti della mostra. In esso trovano spazio accenni, e non poteva essere altrimenti data la povertà di notizie, alla breve parentesi veneziana e al misconosciuto soggiorno londinese.

Il percorso artistico di Artemisia Gentileschi non smette di sorprendere e questa mostra ne solennizza ancora una volta l’importanza nella cultura figurativa italiana. Si ha così l’opportunità di rivivere gli sviluppi della pittura nel primo Seicento attraverso gli occhi e il pennello di una delle sue protagoniste