Un vecchio mito vuole che l’arte sia veramente tale nella misura in cui persegue alte aspirazioni senza curarsi delle pressioni e delle lusinghe del mercato. Apparentemente, l’opera acquista un surplus di valore solo nella motivazione disinteressata, divenendo quindi preziosa perché in qualche modo veicola ed esprime proprio il rifiuto dell’assioma del valore. In altre parole, la produzione di valore prospera soltanto se incorporata nella sua negazione immanente, ossia nel lavoro creativo che non genera valore di mercato ma anzi ne è per definizione parassita. Continuando a credere nel mito romantico della fatale allergia al denaro, si feticizza l’arte come un regno sacro profanato dal capitalismo; e ciò ha effetti nefasti.
Da questo assunto muove Max Haiven nel suo saggio Art after Money, Money after Art Creative Strategies Against Financialization (Pluto Press, pp. 304, sterline 19.99) per trattare senza pudori, in termini opportunamente espliciti, l’alleanza tra arte e denaro quale meccanismo di autoconservazione del capitalismo, e avanzare l’ipotesi del suo superamento. Arte e denaro sono infatti due astrazioni finalizzate a regolare l’immaginazione umana, che diventano o funzionano come «reali» grazie al ruolo da loro svolto nel riprodurre l’ordine economico di cui fanno parte. Sono due forme storiche e arbitrarie, ancorché spacciate per neutrali ed eterne, di «mediazione» tra il potenziale collettivo di energia creativa e le tensioni del sistema. Nell’architettura del capitalismo, rappresentano due colonne che sorreggendo lo stesso arco si saldano e rinsaldano l’una con l’altra, e aiutano l’edificio a sopravvivere alle proprie inevitabili crisi strutturali.
Considerato che il rapporto tra immaginazione e valore è ciò su cui si fonda sia il mondo artistico che quello dell’economia, Haiven s’interessa all’arte «proprio perché è ed è stata sin dai suoi albori complice, corrotta da e in combutta con l’accumulazione capitalista» nelle sue varie forme e manifestazioni. Haiven osserva che negli ultimi venti anni, sotto la spinta del neoliberismo, l’arte contemporanea si è convertita in una risorsa puramente finanziaria. «Il mercato dell’arte è un caso eclatante, quasi una satira vivente, delle dinamiche palesemente folli e oscene della finanziarizzazione nel capitalismo globale». Con «finanziarizzazione» Haiven allude non solo alla pervasiva e crescente influenza del settore finanziario in ogni altro ambito, ma a un processo di trasformazione profonda della vita sociale e culturale, a una nuova grammatica delle relazioni, per cui qualunque cosa – perfino i sentimenti e gli affetti – viene traguardata nell’ottica dell’investimento speculativo. Un epocale cambio di registro, di cui l’autore rintraccia gli inizi nei primi anni settanta, quando Nixon con un gesto da artista concettuale ha slegato il valore del dollaro dal gold standard.
L’arte ha un’importanza enorme per l’economia capitalista, sia come volano per la generazione e circolazione di ricchezza, che come ideale. D’altronde, se l’arte oggi «codifica la creatività, l’immaginazione, l’autonomia, l’esperienza provocatoria, l’orchestrazione del sentimento e dell’estetica, (…) è proprio perché appartiene a un’economia in cui quelle virtù sono ovunque altrove annientate». In questo senso, l’artista, con le sue prerogative di inventiva, entusiasmo, individualismo e spirito d’iniziativa, è diventato una figura paradigmatica, l’esempio di come ognuno può riconfigurare la propria soggettività verso una migliore partecipazione al mercato, adeguandosi alle mutevoli sfide di un’era segnata dal rischio, attraverso la rinuncia a ogni stabilità. L’artista non è più lo scontento insubordinato, ma il prototipo del lavoratore efficiente.
Eppure soltanto un esiguo numero di artisti beneficia davvero di questa condizione, mentre il resto annaspa nell’inferno della gig economy, in un’oscurità abietta e immiserita che per giunta è il presupposto materiale all’opulenza dei piani alti dell’artworld.
Nel libro, Haiven presenta vari casi di artisti che negli ultimi decenni hanno utilizzato come medium il denaro nelle sue molteplici vesti (monete, banconote, assegni, ecc.) per promuovere una contro-narrazione. E identifica tre strategie, tre livelli di azione critica: l’arte che rivela il «cannibalismo sociale del denaro» (Barbara Kruger, Blu), l’arte che riflette sulla propria fascinazione per il potere dei soldi (Christian Jankowski, William Powhida), l’arte che mostra il lavoro nella forma di «cooperazione immaginativa» non più piegata a fini di sfruttamento e accumulazione (Cesare Pietroiusti, Nuria Güell, Levi Orta). Tuttavia, l’autore è consapevole che di per sé queste manovre non sono efficaci né risolutive, e in qualunque momento possono finire cooptate nel rafforzamento dello stesso sistema che vorrebbero abbattere. Le avanguardie del XX secolo, ad esempio, nel loro tentativo di riscattare l’arte dalle convenzioni borghesi, hanno semplicemente favorito una mercificazione ancora più potente e onnicomprensiva. E mentre acceleravano la dematerializzazione dell’opera (dal ready-made alla performance, all’estetica relazionale), hanno indicato al capitalismo la via per evolversi vampirizzando le autonomie soggettive di immaginazione e creatività.
Ciononostante, il ristretto margine di incoercibile libertà che impedisce all’arte di venire fagocitata del tutto è la prova che è forse possibile controbattere alla malizia del capitalismo finanziarizzato che tutti arruola e tutto irreggimenta; purché invece di mercificare le eccezioni e comprenderle all’interno del processo di valorizzazione si punti a distruggere definitivamente il dispositivo. Haiven non crede nella redenzione dell’arte, tantomeno in una funzione più equa del denaro – e nessuna criptomoneta aggiusta davvero le cose. Piuttosto, lo studioso auspica l’abolizione di entrambi, nella speranza che in futuro i ruoli, le forze, le risorse e le capacità oggi codificate dalle istituzioni «arte» e «denaro» trovino un modo per esistere al di là di queste categorie capitaliste.
Dato che la posta in palio è il destino dell’immaginazione, le esperienze degli artisti radicali possono suggerire un metodo utile per pensare alternative di emancipazione praticabili anche mentre l’immaginazione stessa viene di continuo aggiogata dalla finanziarizzazione. Sebbene Haiven non offra soluzioni concrete, invita comunque a prendere atto che il capitalismo e gli altri sistemi di potere dipendono in ultimo dalla logica con cui si mette a frutto il potenziale creativo, e possono pertanto essere liquidati o modificati solo riorganizzando la trama della cooperazione immaginativa, non a livello di piccoli collettivi sperimentali o di singole subculture bensì a livello di società.