Cosa manca a san Basilio? Semplice: il colore. Così hanno risposto molti bambini delle scuole di quartiere, interpellati durante i laboratori tenuti dall’associazione WorkIn project. Ma non si sono arresi e hanno provato a cambiare  la situazione: sui lucidi degli architetti hanno riprogettato le facciate di alcuni edifici e poi quelle visioni sono state proiettate in grandi dimensioni, rivestendo l’intonaco sberciato di molti palazzi. Si è trattato di un punto di onore per i più piccoli: per una volta, si sono confrontati alla pari con gli artisti veri, quelli seduti sulle gru, in alto, stagliati contro il cielo mentre danno vita a favole contemporanee e a foreste lussureggianti incastrate fra le finestre e i muri scrostati. «Nei nostri incontri alla scuola Gandhi, non volevamo riempire la testa dei bambini con nozioni, ma provocare una serie di domande e risposte per far nascere soluzioni», spiega Giovanna Cozzi di WorkIn project. «Avevamo mostrato loro alcune parti degradate di san Basilio, come dei giardinetti asfaltati, ‘zone di nessuno’, territori abbandonati senza più verde, e tutti, ma proprio tutti hanno aggiunto alberi, prati e fiori, ricontestualizzando il loro quartiere in mezzo alla natura».

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È quello che ha fatto anche Hitnes, lavorando ai suoi giganteschi murali su diverse facciate cieche per Sanba, il progetto di arte pubblica e riqualificazione sociale nato dall’associazione Walls e rivolto a tutti gli abitanti. Non è la prima volta che accade: già nel 2014 artisti come Liqen e Agostino Iacurci avevano colorato quella periferia a nord est di Roma.

La storia di san Basilio, che si trova sulla via Tiburtina al km 12, dopo Rebibbia, è piuttosto nota. Nacque per contenere i ceti popolari espulsi dal centro storico quando intere zone abitate vennero sventrate dal grandeur urbano del fascismo. Le case erano state costruite con un materiale precario, autarchico, un impasto di trucioli di legno con calce. Alcuni palazzi,  se visti da una fotografia aerea, componevano con la loro disposizione addirittura la scritta «Duce». Nel 1954, la borgata venne demolita per far posto alle case progettate da Mario Fiorentino (lo stesso architetto di Corviale), che lo ridisegnò come un insieme di unità residenziali e, tutto sommato, attraverso un’architttura popolare di buon livello.
Il resto, purtroppo, è cronaca. Assediato da continui problemi abitativi, da insicurezza sociale e criminalità dovuta soprattutto allo stato di abbandono in cui è stato lasciato dalle amministrazioni capitoline (i servizi ai cittadini spesso sono una chimera), il quartiere difficilmente finisce sulle pagine dei giornali per raccontare belle storie, cosa che deprime non poco chi ci vive e passeggia quotidianamente in quelle strade con i propri figli.

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È innestandosi su questa realtà che Sanba sta cercando di rovesciare il piatto della bilancia, partendo da un bando di «Roma creativa» (a Tormarancia c’è Big City Life mentre nelle stazioni della metropolitana di Rebibbia c’è Zerocalcare con il suo mammuth che trasporta il carcere). Non più notizie umilianti come unico ritratto di quartiere, ma un binomio ben più allettante, da spendersi mediaticamente, come quello di una nuova san Basilio legata all’arte e alla cultura. Una borgata in grado di «ospitare» l’altro da sé, di aprire i suoi spazi e che, tentando di ricostituire una comunità autonoma, spinge per rinascere dal basso, senza aspettarsi manne politiche. Sanba si potrebbe definire un «crowdfunding dell’immaginario». Il problema però non va eluso e resta da affrontare in tutta la sua ambiguità: un progetto di arte pubblica non rischia di aprire uno squarcio di interesse e poi, una volta spenti i riflettori, far ripiombare tutto nell’oblio?

«Sono in molti a Roma oggi a muoversi nel campo di quella che viene chiamata street art – dice Simone Pallotta, anima di Walls e curatore di progetti di arte pubblica urbana – Il murales deve essere un volano di visibilità, non un pretesto estetico. Un punto da cui partire per focalizzare il nostro lavoro a lungo termine, una ’messa in partecipazione’ che coinvolga e agganci larghi strati di popolazione. Per un anno e mezzo abbiamo fatto sopralluoghi, cercato di conoscere la realtà urbana dove saremmo andati ad operare, abbiamo conquistato così la fiducia di chi ci abita».
Bambini, adulti e soprattutto anziani, che rappresentano un numero cospicuo degli abitanti di san Basilio, sono invitati a riprendere possesso del territorio – con laboratori, incontri, decisioni collettive – insieme ad altre associazioni che già operano da tempo nel quartiere e svolgono un lavoro capillare di riconnessione fra generazioni e insterstizi metropolitani. Non sempre fila tutto liscio, qualche voce si alza per chiedere che, invece di disegnare, si coprano le buche delle strade. E allora bisogna spiegare cosa si sta facendo, anche cercando una ricaduta nazionale e non più solo locale, ghettizzata. Forse, con più conoscenza, «illuminando» gli spazi periferici, arriveranno anche le migliorie.

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Al di là delle parole, Sanba, continua Pallotta, «non vuole solo riempire le facciate dei palazzi di murales, saturando gli spazi con motivi estetici. Un giorno, queste opere dovranno essere curate e finirebbero per testimoniare un’ulteriore situazione di degrado. Chi ne se assumerà la responsabilità fra dieci anni? A noi, interessa dimostrare come un luogo possa vivere dei mutamenti ’felici’. È una visione che richiede tempi diversi, anche perché le comunità distrutte si ricreano dopo anni e anni. È questo il pagamento che esigiamo sul territorio… un prolungamento degli effetti positivi, intrecciando sviluppo sociale con arte di alto livello. Abbiamo fatto un test: su Google san Basilio usciva sempre connotato con notizie di cronaca nera; linkando però articoli legati a iniziative culturali siamo riusciti a invertire la comunicazione, finalmente anche Internet ha rispecchiato un’immagine diversa del quartiere. Passeremo il testimone di quel che stiamo facendo, entro due anni, a start up di giovani di san Basilio. Cederemo il progetto, dopo aver fatto da supervisori».

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Hitnes, l’artista che ha lavorato alacremente alla trasformazione delle facciate cieche, ha consegnato agli abitanti la sua opera. Spesso è stato rifocillato dagli abitanti del quartiere, altre volte è stato investito di richieste che provenivano dai bambini ma anche dai loro genitori. Lui ha ascoltato, elaborato e poi ha proseguito per la sua strada, dipingendo un bestiario fantastico che è la cifra, conosciuta in tutto il mondo, della sua creatività. «Una papera è un animale consueto, ma se la faccio incontrare con un gatto e un calamaro alimento una illusione, provoco pensieri surreali. Giri l’angolo e ti trovi in una foresta incantata. Sono come caduto in questa piazza e in un mese di permanenza ho stretto amicizie e preso confidenza con le persone. Non ho disegnato mostri, lupi ed aquile perché il quartiere non ne ha bisogno, qui queste creature sono bandite».