La mole di memorie, studi, romanzi e film dedicati alla Shoah è immensa. Pochissime opere sono riuscite a renderne testimonianza, dunque a dire l’indicibile, come Maus, il romanzo a fumetti di Art Spiegelman premiato con il Pulitzer nel 1992. Nessuno avrebbe potuto prevedere che una storia a fumetti, con gli ebrei ritratti come topi, i tedeschi come gatti e i polacchi come maiali, potesse avere un impatto così forte, paragonabile solo ad alcune delle memorie più potenti o a quella pietra miliare che è il film di Claude Lanzmann Shoah. Allo stesso modo sarebbe stato difficile immaginare che due decenni più tardi MetaMaus, libro sulla genesi di quell’opera pubblicato nel 2011 e tradotto ora in italiano (Einaudi, pp. 300 + dvd, euro 35.00, traduzione di Cristiana Mennella), si sarebbe rivelato un testo fondamentale sia sul rapporto con quella tragica cesura delle generazioni successive, prima di tutto i figli dei deportati sopravissuti come Art, sia sulla percezione cangiante nel tempo della Shoah : dalla sostanziale rimozione iniziale alla «svolta» arrivata solo con il processo Eichmann nel 1961, sino alla più recente ondata divulgativa e spesso falsificante iniziata a partire dagli anni settanta e poi montata sempre più.
L’asse centrale di MetaMaus è una lunga intervista a Spiegelman. L’intervistatrice è Hillary Chute, prima studiosa dell’opera del disegnatore e poi sua stretta collaboratrice. Il libro però è molto più di questo. Presenta decine di bozzetti, illustrazioni degli autori o comunque delle immagini che hanno ispirato in qualche misura Spiegelman, estratti da altre opere del disegnatore, inclusa la prima versione di Maus che contava solo tre pagine. Riporta molte foto dei protagonisti del libro e la versione originale della prima intervista dell’autore al padre Vladek. La trama di Maus, racconta Spiegelman, si basa soprattutto su quell’intervista. Poi, per trecidi anni, l’autore ha continuato a lavorare su quella base e a intervistare Vladek, finché è vissuto, per precisare, mettere a fuoco e scandagliare.
Migliaia di schizzi e bozzetti
Molte di quelle interviste si ritrovano nel dvd, con link alle vignette interessate. Lo stesso dvd comprende infatti l’intero romanzo, migliaia di bozzetti e schizzi dall’archivio del disegnatore e una serie di testimonianze sulla vita della madre di Spiegelman, Anja, ad Auschwitz. Anja, suicidatasi nel 1968, aveva scritto durante la prigionia, perso dopo la liberazione e poi riscritto un diario destinato al figlio, bruciato però da Vladek dopo la morte della moglie. L’autore cerca qui di supplire a quel vuoto raccogliendo testimonianze sulla vita della madre nel lager e inserendo nel dvd la raccolta di opuscoli e scritti vari sulla Shoah messi insieme da Anja nel dopoguerra, alcuni dei quali sono stati fondamentali per la realizzazione di Maus.
Questa massa a volte caotica di materiale, sommata alle spiegazioni e al commento quasi vignetta per vignetta forniti dall’autore, rivela la minuziosità ossessiva con cui Spiegelman ha curato ogni particolare, anche quelli all’apparenza irrilevanti: le settimane di ricerche spese per mettere a fuoco ogni dettaglio con precisione massima, la lucida progettualità architettonica che presiede al montaggio e alla costruzione di ogni pagina. Quanto a monumentalità, Maus può essere davvero paragonato solo all’opera di Lanzmann. Questa cura, che lo stesso Spiegelman riconosce un po’ maniacale, non sarebbe però bastata senza il ricorso alla metafora. Per quanto preciso sia il realismo della ricostruzione, l’indicibile non può essere detto se non rinunciando in partenza a inseguire un obiettivo irraggiungibile e scegliendo di raccontare invece per metafora, coniugandola però con una ricostruzione storica quanto più realistica possibile. Nel romanzo di Spiegelman tutto è rigorosamente vero, tranne i personaggi trasformati in animali.
Metafora non neutrale
Il tipo di metafora scelto non è neutrale. Il catalogo dei topi antropomorfi nella storia del fumetto soprattutto americano è folta, ma quelli di Spiegelman non sono i topini graziosi di Disney. Nella sezione di MetaMaus che proprio a questo nodo è dedicata, il disegnatore giura di essere stato quasi inconsapevole del vasto uso fatto dai nazisti del paragone tra gli ebrei e i topi. Però, sia pure a livello inconsapevole, questo aspetto deve avere avuto invece il suo immenso peso in una scelta che non manca di coraggio. La metafora dei topi funziona così bene e si accompagna tanto perfettamente alla precisione della ricostruzione proprio perché gli ebrei qui sono quello che i nazisti volevano che fossero, quel che li avevano costretti a essere.
MetaMaus però non è un nuovo libro su Vladek Spiegelman. Parla soprattutto di Art, riguarda il confronto con la memoria, l’eredità e anche l’immagine divulgata della Shoah di chi è venuto dopo. Spiegelman aveva disegnato Maus per fare i conti con il passato della propria famiglia e con la propria identità di ebreo del tutto assimilato, un classico «ragazzo di Movimento» degli anni sessanta, consapevole però che, secondo la definizione di Sartre, «ebreo è chiunque venga visto come tale». Il che per la generazione seguente a quella del genocidio ha significato anche e forse soprattutto che ebreo è chiunque sarebbe stato appena pochi decenni prima inseguito e cacciato per essere gassato, come appunto un topo.
Spiegelman ha scelto di ricapitolare in MetaMaus la vicenda di quella resa dei conti spesso conflittuale e sempre sofferta con il passato per affrancarsi da un peso diventato dopo il successo Maus anche più greve, tanto che nelle vignette all’inizio del nuovo libro lo disegna come un topo gigantesco dal quale è schiacciato: quello del suo stesso romanzo, dunque anche di quella mistica dell’Olocausto della quale si è trovato suo malgrado a essere considerato profeta e sacerdote e di quella banalizzazione della Shoah che ha visto snodarsi negli ultimi decenni.
Vladek senz’aura
Spiegelman sa che non c’è stato nessun Olocausto e che non esiste nessuna santificazione nel martirio. C’è stato un genocidio, le cui vittime non sono state nobilitate dalla persecuzione. Quella è una visione di derivazione cristiana che si riflette anche nella più inaccettabile delle critiche rivolte agli ebrei d’Israele: «Come, proprio voi che avete sofferto tanto non siete diventati i più buoni di tutti?». Vladek non è uscito da Auschwitz circondato da un’aura di santità regalatagli dalla sofferenza: è avarissimo, egoista, diffidente nei confronti di chiunque, con venature razziste quando parla dei neri.
Le vittime del genocidio lottavano per la sopravvivenza, i momenti di solidarietà erano accostati e subordinati al tentativo di salvarsi a ogni costo. Vladek ce l’ha fatta grazie alla somma delle sue doti e dei suoi difetti, che lo rendevano particolarmente adeguato alla lotta per la sopravvivenza. Anja si è salvata per una via opposta, o così almeno ritiene suo figlio: grazie alla solidarietà e alla protezione reciproca messa in opera da alcune donne di Birkenau. In entrambi i casi, come per i milioni che invece non ne uscirono vivi, le categorie dell’olocausto e del martirio sono solo fuorvianti.
Altrettanto improprio è il tentativo di affrontare la Shoah trasformandola in materia poetica, quasi fantastica, come ha fatto Beningni nel suo La vita è bella, da Spiegelman ben poco apprezzato. La Shoah è stata l’inimmaginabile: lo sterminio di un popolo lucidamente progettato e messo in opera secondo i princìpi di efficienza consentiti dalla tecnica evoluta. Di questo tratta Maus. Il resto è inganno.