Uno foto scattata qualche mese prime dell’incidente stradale che gli tolse la vita a 56 anni, ritrae un uomo ancora giovanile, gli occhiali sollevati sui capelli un po’ arruffati, intento a accendersi una sigaretta, come un attore del cinema. In quel marzo di cinquant’anni fa non fu spezzata solo la vita di Arsenio Frugoni, medievista dell’Università di Roma, ma anche quella del figlio Giovanni, un giovanissimo futuro medico di 25 anni. Frugoni era nel pieno del suo vigore intellettuale. Prima de La Sapienza aveva insegnato alla Normale di Pisa, di cui era stato allievo negli anni trenta. Benché di famiglia poverissima, quel giovane allora cattolico e crociano poté studiare e farsi largo nell’insegnamento prima nei licei, poi all’Università grazie al sostegno di istituzioni pubbliche come l’istituto allora diretto da Giovanni Gentile. Negli occhi dei suoi allievi pisani di vent’anni dopo è rimasta l’immagine del suo primo ingresso in aula, stavolta da professore di Storia (senza aggettivi), che a quarant’anni prendeva il posto di mostri sacri come Delio Cantimori. Uno di loro, Gianni Sofri, ricorda un signore alto e biondo, dagli occhi chiarissimi, sportivo e dall’andatura dinoccolata.
Era il 1954, l’anno in cui Frugoni aveva pubblicato il suo Arnaldo da Brescia nelle fonti del secolo XII. Come tutti i libri importanti, continua a dire cose diverse e a suscitare nuovi problemi nelle generazioni di lettori, specialisti o meno, che via via ci si accostano. Più volte ristampato (se ne attende una nuova edizione per il Mulino, dopo un passaggio nell’Einaudi di tempi migliori) e tradotto (in Francia), resta il volume più noto e discusso di Frugoni, forse soprattutto per i problemi di metodo che solleva. Non è questa la sede per renderne conto; ad ogni modo, sono quelli che sempre si presentano a uno storico, qualunque sia il problema che gli sta a cuore: il rapporto tra i fatti e le loro insidiose rappresentazioni, la necessità di analizzare le fonti «una per una, così come sono state scritte», inserendole cioè nel loro specifico contesto, senza cadere nella tentazione di combinarle con disinvoltura, come se fossero tessere di un mosaico coerente.
Frugoni fu uno storico curioso – Isaiah Berlin non l’avrebbe messo fra i «ricci» – e criticamente avvertito, ma poco incline a riflettere per esteso sul suo mestiere. Amò molto Marc Bloch, che contribuì a far conoscere in Italia, ma non scrisse un libro sul métier d’historien. La sua idea artigianale del lavoro storiografico traspare in filigrana dai suoi testi, dal saggio sul giubileo di Bonifacio VIII agli scritti su Dante e Celestino V, passando per Cristoforo Colombo e Filippo Buonarroti. Uno scritto del 1961, la voce Vita e storia dell’enciclopedia Panorama, edita da Zanichelli, ci offre tuttavia la possibilità di sbirciare in quella variopinta officina. Pubblicata in modo autonomo nel 1965, torna oggi nella veste di un piccolo libro, La storia, coscienza di civiltà, edito da Scholé (pp. 96, euro 10,00). Lo apre un bel saggio della figlia Chiara, che torna qui a riannodare un dialogo mai sopito con quel padre esigente e severo, ma sorridente e umanissimo nel ricordo degli allievi, che da ragazzina portava a Clusone in lambretta. Arsenio studiava allora la danza macabra dipinta sulla facciata dell’Oratorio dei Disciplini. Le discussioni si accendevano animate tra padre e figlia davanti agli affreschi quattrocenteschi, accostati grazie a scale di fortuna; proseguivano nei prati delle valli intorno, di fonte ad altre pitture, studiate con il solo appiglio di una magra bibliografia e non impeccabili fotografie. Dopo la sua morte Chiara ha conservato le sue carte, le ha donate alla Scuola Normale per metterle a disposizione degli studiosi, ha curato con amore i suoi scritti, come quello che oggi teniamo fra le mani.
Il Frugoni di questo libricino riflette su come dall’antichità a oggi è cambiato il ruolo dello storico; al contempo, rivendicava con orgoglio il senso del proprio mestiere: «scrivere storia, leggere storia, è pensare. Un pensare che dilata la nostra umanità, la inserisce nei concreti problemi dell’esistenza, e dà a questa le sue ragioni e le sue mete»; altro che «distensione» o «piacevole relax». No, il lavoro dello storico, la sua giustificazione profonda, sta nel rispondere alle domande che la realtà circostante gli sollecita, senza rinunciare a porne di nuove. Non a caso citava la «testimonianza personale, l’esempio morale» di Bloch, Croce, Pirenne e Huizinga, storici diversissimi e in modi differenti latori di un’«alta protesta» contro la «disumanizzazione», l’«esplosione» di una barbarie antica, ma sempre rinnovata nelle forme che Frugoni sentiva come minaccia. Ma nelle pagine de La storia, coscienza di civiltà troviamo soprattutto il fine scrittore di storia, capace di tracciare in poche pagine affreschi ad ampie campate. Dalla storia ancella dell’oratoria e della poesia del mondo antico, a quella «magistra vitae» del medioevo, sino al marxismo e storicismo che tanto hanno impegnato la riflessione di storici e filosofi, passando per l’età del positivismo, «quando gli storici vollero essere soltanto storici». È lo stesso Frugoni che il lettore ha imparato ad apprezzare in Storia della città in Italia, o nell’agilissima Storia della guerra. Sono pagine accessibili a tutti, insegnanti e studenti, come quelle che Gombrich scrisse nella Breve storia del mondo. Non era solo felice divulgazione, ma il tentativo di porre domande semplici, le più difficili a cui rispondere. Alla prima lezione in Normale spiazzò gli studenti quando chiese: «che cosa sono i cardinali»?