A Locarno era arrivato preceduto dalla bolla mediatica di «film ad alto rischio attentati» cosa che non ha dissuaso (anzi) il pubblico a riempire la Piazza Grande del cui cartellone (ogni giorno meno inventivo) fa parte, ma Le ciel attendra appartiene a quella tipologia di film con un «tema» che arriva prima di tutto. Si parla infatti di Daesh e di come il sedicente stato islamico attua il reclutamento tra i giovani francesi, una strategia molto efficace visto che le statistiche danno il numero di arruolati in vertiginosa crescita specie tra le ragazze. Cosa spinge un adolescente maschio o femmina a convertirsi e a combattere in Siria con gli islamisti? Anche quando in apparenza non manca di nulla, vive in una tranquilla classe media, genitori sorridenti,amici, feste,primi amori?

Sonia e Melanie (due giovani attrici interessanti, Noemie Merlant e Naomi Amarger) sono state «arruolate» in rete. La prima ha un padre musulmano ma non praticante, la seconda figlia unica che vive con la mamma parrucchiera (Clotilde Courau) viene da una famiglia cattolica. Le hanno risucchiate nel velo e in una fede folle che le isola dal mondo, dagli amici, dalla famiglia, da se stesse. Sonia viene scoperta,arrestata e disintossicata dall’ostinazione guerriera di sua madre (Sandrine Bonnaire) mentre Melanie sparisce in Siria per sempre.

La regista, Marie-Castille Mention-Schaar racconta che l’idea di Le ciel attendra le è venuta subito dopo il massacro di Charlie Hebdo con l’urgenza personale da madre di due figli adolescenti di indagare su cosa sta accadendo. Prima di girare ha incontrato diverse ragazze «indottrinate»ma è soprattutto il lavoro di Dounia Bouzar, sociologa francese, e del suo centro di de-radicalizzazione il riferimento del film. E Bouzar appare nel ruolo di sé stessa, mentre dialoga con i genitori ignari e devastati e alle adolescenti spiega cosa significa l’Islam – (Mention-Schaar però ci tiene a dire che questo non è un lavoro sull’Islam), una religione antica di 1400 anni che il waabismo dei sauditi, molto più recente, ha manipolato per ridurla a violenza e a mezzo di controllo sociale, politico, culturale.

Sono forse le cose migliori del film, quelle che lo allontanano da quel fondo di superficialità opportunista che cresce dopo le prime immagini, quando appaiono le due protagoniste, l’una specchio dell’altra. Di Sonia non vediamo l’indottrinamento, la conosciamo già «posseduta», gli occhi sbarrati, le voci in testa delle «sorelle» che la perseguitano dal telefono.

Sappiamo invece molto di Melanie, adolescente delicata, che studia il violoncello, impegnata con le associazioni che aiutano i bambini in Africa. Appare serena finché la nonna non muore e allora un misterioso Leone, il principe arabo, si insinua nella sua pagina facebook, fa leva sulla sua debolezza, sulle sue paure, sulla sua solitudine fino a plasmarla. Le mostra video di bimbi ammazzati in Palestina e in Siria, la sveglia suona la preghiera, la ragazza smette di studiare, si copre di nascosto, caccia anche la compagna musulmana perché non abbastanza religiosa. Lei invece è pronta al sacrificio per amore di lui, il suo promesso sposo, con quell’impeto da integrazione assimilata – chi ricorda l’importanza dei segni nella lotta delle Black Panthers? La rivoluzionaria chioma crespa di Angela Davies contro il capello stirato per essere come i «bianchi».

La tecnica persuasiva è simile a come si descrivono gli adescamenti pedofili o nelle sette. Bouzar spiega che in queste ragazze c’è un punto debole, un’insicurezza, un momento delicato, il bisogno adolescente di sentirsi importanti, di coltivare un segreto, di essere qualcos’altro rispetto ai propri genitori, di sentirsi protagonisti. Mention-Schaar invece è molto meno attenta ai passaggi e ai conflitti, e all’esplorazione preferisce l’impatto «spettacolare»; tutto è condotto con enfasi, nelle immagini sempre più isteriche, in quel paesaggio dove le sagome delle ragazzine velate compaiono ossessivamente minacciose. Le sue eroine non hanno ideali romantici sembrano solo fuori di testa. Il loro è un incubo o una follia, appunto, riduzione semplificatoria che alla patina strumentalmente mediatica non aggiunge né sottrae nulla accarezzando certezze che servono a poco.