La revoca della concessione del Buon Pastore alla Casa internazionale delle donne è arrivata ieri, in una determinazione dirigenziale del Dipartimento patrimonio e politiche abitative del Comune di Roma. Il documento è l’arido resoconto di uno scacco relazionale, quello intercorso tra il direttivo delle donne di via della Lungara e la giunta Raggi.

Del resto questo capita quando si parlano due lingue diverse, le prime della politica, le rappresentanti della seconda della burocrazia. Con l’unica differenza che le seconde hanno il potere del proprio ruolo e non retrocedono di una virgola dalla diffida a pagare il debito, rimandando al mittente la memoria in cui si facevano presenti le numerose spese sostenute dal Consorzio della Casa in questi anni.

Nelle stesse ore in cui la giunta guidata da una sindaca ha pensato di porre fine a un’esperienza culturale, politica e sociale cruciale come quella della Casa delle donne di Roma, il presidente della Regione Lazio Zingaretti e l’assessora regionale al Turismo e alle Pari opportunità ne hanno stabilito l’unicità. Dal Comune è la sentenza di un «fallimento progettuale», dalla Regione è il riconoscimento di «luogo di interesse pubblico».
In un comunicato stampa diffuso in serata il direttivo del Buon Pastore ribadisce come si opporrà in tutte le sedi, per continuare a difendere libertà e autonomia. Il testo della revoca appare in linea con una logica restrittiva e miope di sfratti e sgomberi che in voga a Roma e altrove.

È il black-out dell’intelligenza politica, specchio fedele del governo in carica, giocato su legalismo e presunta moralità che vanno a sostituire la praticabilità degli spazi urbani, i beni comuni e le pratiche virtuose, spina dorsale, sia storica che culturale, del Paese.

La domanda che si impone a questo punto è: la Casa internazionale delle donne può essere una partita amministrativa, oppure c’è qualcosa di irriducibile in questa esperienza di libertà femminile? La risposta l’hanno data le migliaia di donne e di uomini che in questi mesi hanno espresso la propria solidarietà con lo slogan #lacasasiamotutte.

Raccontano di un abitare che è lontano dai bacini elettorali o identitari ma che dice di una giustizia e di una radicalità opposte al linguaggio soporifero della burocrazia e che, proprio per questo, ha ragione di sé. Che si moltiplichino gli appelli, le manifestazioni e le auspicabili occupazioni. Senza sconti, perché la Casa non si tocca.