Dall’ultimo discorso come presidente degli Stati Uniti, Barack Obama l’altra sera ha escluso Israele e i palestinesi. Una scelta che ha gettato una nuova ombra sugli otto anni di politica mediorientale della sua Amministrazione, segnata da promesse non mantenute. Il presidente uscente ha rinunciato all’ultimo “colpo di coda” temuto dal premier israeliano Netanyahu. Non pochi ci speravano dopo l’astensione degli Usa all’Onu che lo scorso 23 dicembre ha permesso al Consiglio di Sicurezza di riaffermare, con la risoluzione 2334, lo status di territori occupati per Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est e di condannare la colonizzazione israeliana. Però in un’intervista il presidente uscente ha spiegato che la linea espressa dal suo successore Donald Trump, di aperto sostegno alle posizioni della destra al potere in Israele, se attuata con decisioni concrete avrà conseguenze gravi.

Obama si è riferito all’intenzione di Trump di trasferire l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme in un atto di riconoscimento della città santa quale capitale unita di Israele. Intenzione confermata dalla nomina a nuovo ambasciatore americano a Tel Aviv dell’avvocato David Friedman, uno storico alleato dei coloni e della destra israeliana. La tensione, a pochi giorni dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca, è già alle stelle. La battaglia diplomatica per Gerusalemme è iniziata. Il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Abu Mazen ha inviato una lettera a Trump nel tentativo di dissuaderlo a compiere i passi annunciati. Un suo stretto collaboratore, Mohammed Shttayyeh, ha annunciato una campagna contro il trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme. Si comincia domani nelle moschee di Medio Oriente, Nordafrica e Asia dove si terranno preghiere contro il riconoscimento di Gerusalemme, incluso il suo settore arabo occupato nel 1967, quale capitale di Israele. E altrettanto avverrà domenica nelle chiese.

Impossibile fare previsioni sul successo di questa iniziativa che abbraccia due continenti. L’Anp però ci crede e se da un lato, come ha sottolineato Shttayyeh, sottolinea il carattere pacifico della campagna, dall’altro avverte che Trump dovrà essere molto cauto perché le sue intenzioni su Gerusalemme rischiano di incendiare la regione. Il caponegoziatore palestinese Saeb Erekat ha fatto sapere che eventuali mosse della nuova Amministrazione Usa a Gerusalemme, contrarie al diritto internazionale, spingeranno i palestinesi a revocare il riconoscimento di Israele votato dopo gli Accordi di Oslo e a smembrare l’Anp. La partita ora si sposta a Parigi dove il 15 gennaio si apre la conferenza internazionale sul conflitto israelo-palestinese. Israele ha bocciato senza appello l’iniziativa francese. Al contrario l’Anp spera che i 72 Paesi partecipanti, tra i quali gli Usa rappresentati dal segretario di stato John Kerry, alla sua ultima missione, prendano decisioni concrete a favore della nascita dello Stato di Palestina.

Da Parigi però non uscirà una dichiarazione finale rivoluzionaria. Con ogni probabilità la conferenza chiederà a Netanyahu e Abu Mazen di riaffermare il loro impegno a favore dei Due Stati e di prendere le distanze da quei ministri e funzionari di governo che si oppongono a quella soluzione. In modo particolare al premier israeliano si chiederà di allontanare dal governo il ministro dell’istruzione Naftali Bennett, leader del partito ultranazionalista religioso Casa Ebraica, fermamente contrario allo Stato di Palestina. Il quotidiano israeliano Haaretz scrive che i partecipanti riaffermeranno come confini dei territori palestinesi occupati quelli del 4 giugno del 1967 e rifiuteranno le annessioni unilaterali e non negoziate. La Francia, aggiunge il giornale, vuole raggiungere un consenso tra gli Stati partecipanti su una dichiarazione “equilibrata” che contenga allo stesso tempo l’accoglimento della risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e la condanna della “violenza palestinese”.