Roma è andata, Torino segue a ruota. Resistono Milano e Bologna, ma l’alleanza a tre che doveva resuscitare il centrodestra potrebbe franare anche nella piazza Grassa emiliana. Comunque vada a finire, quel progetto è stato sepolto ieri. Giorgia Meloni si è candidata, come da copione. E come da sceneggiatura della sgangherata commediaccia di queste elezioni comunali lo ha fatto senza lesinare gaffe. «Una volta dire civis romanus sum era motivo di vanto» declama, e ti balenano in mente le mascelle dei centurioni di Asterix. «Dovrei fare il sindaco e allattare? Per una città che ha come simbolo la lupa non sarà un problema», infierisce, e stavolta il flash è la compianta Gabriella Ferri nel trucidissimo cult anni 70 Romolo e Remo, storia di due figli di una lupa.

A Bertolaso chiede «un passo di fianco» per non consegnare Roma a Giachetti o alla pentastellata Raggi. Ci sperano in molti, soprattutto dentro Forza Italia. Il gran rifiuto dell’ex dominus della protezione civile salverebbe la faccia a Silvio e il posto a loro. Ma per spingere Bertolaso al sofferto «passo a lato» dovrebbe essere d’accordo il puparo di Arcore, e così non è. Mi ha detto «Vai avanti come una ruspa», racconta il candidato. Non esagera: spianare i traditori è quello che il signore di Arcore sogna di fare. Castelli in aria? Probabilmente sì ma con un fondamento: i sondaggi commissionati dicono che Bertolaso raccoglie più consensi della Lupa, e se la caverebbe meglio di lei anche al ballottaggio, pur finendo battuto. Senza quei sondaggi le scelte di Berlusconi sarebbero state diverse.
Ecco perché, nel suo stato maggiore, molti sperano ancora in un ulteriore colpo di scena. Se il trend che alimenta i sogni dell’ex re fossero confermati potrebbe essere proprio Giorgia a spostarsi «a lato». Non succederà, come non succederà, salvo sorprese con lui sempre possibili, che ad arrendersi sia Berlusconi. La partita non prevede risultati pari. Non a caso, poco dopo la rottura nella capitale, Salvini rompe gli indugi anche a Torino. Che Osvaldo Napoli non fosse il candidato gradito dal Carroccio era noto, ma sino a poche ore prima pareva certa l’intesa per non rompere la tregua comunque fosse finita a Roma. Invece à la guerre comme à la guerre. Il leghista straccia l’accordo: «Se Berlusconi non vuole politici la persona giusta è il notaio Alberto Morano. Napoli non è un candidato valido».

Quel che resta delle cannoniere di Arcore apre subito il fuoco: «La Meloni è una raffinata fascista moderna», dichiara Francesca Pascale, improvvisandosi politologa dopo che il potente fidanzato aveva sparso un po’ d’antifascismo usa e getta ai danni della Lega. Inevitabilmente la battaglia si combatterà anche sul fronte, mai così posticcio, del femminismo. «Non deve più succedere che gli uomini dicano a una donna cosa deve fare», si esalta la nuova suffraggetta. E’ la campagna elettorale del 2016: verrà ricordata a lungo e senza alcun rimpianto.

Eppure da questa gara farsesca può dipendere davvero la fisionomia di quella destra che in Italia è maggioritaria da sempre. Salvini nega: «Nessun retropensiero sulla leadership», ma neppure lui pretende di essere preso sul serio. La posta in gioco è proprio quella, e dalla leadership dipenderà anche se in Italia si affermerà una destra come quelle che imperversano in tutta Europa o se Berlusconi, con la sua eterna alleanza tra destra radicale e orfani dell’antico pentapartito, continuerà a imprimere il proprio marchio.

Solo che stavolta non è una partita a due. Senza contare il Pd, che mira a pescare nelle stesse acque, l’antica armata di Arcore schiera quattro candidati più uno: anche Simone Di Stefano, targato Casapound, da quel composito fronte proviene. Storace e Giorgia Meloni sono facce della stessa medaglia: faranno il possibile per compattarsi. Tra Alfio Marchini e Bertolaso, anche loro all’apparenza molto simili, qualche elemento di diversità reale invece c’è. Il primo, per paradossale che possa apparire, è il più “renziano” tra i concorrenti romani, almeno dal punto di vista del profilo socio-politico. Dinamico, piacione, «né di destra né di sinistra», non coinvolto nel disastro d’immagine che affligge i politici della seconda repubblica, ruberà voti a Giachetti quanto e più che a Bertolaso. Il quale invece è davvero il testimonial dell’ultima ridotta del berlusconismo un tempo egemone. Dal suo risultato si capirà se ne resta ancora qualcosa, tanto da garantire almeno una presenza forte nella destra, o se ormai è solo materiale da modernariato.