In principio furono purea di patate, carne e crema al cioccolato, tutti rigorosamente in tubetti da spremere in bocca. Il primo pasto consumato in orbita fu in quel lontano 12 aprile 1961, quando Jurij Gagarin spiccò il volo. Otto ore appena in cui il primo uomo ad andare nello spazio dimostrò al mondo intero l’infondatezza della convinzione che mangiare in assenza di gravità portasse al soffocamento.

Poi per gli astronauti arrivò il cibo liofilizzato, ma quei dadi super concentrati erano davvero disgustosi. Nella storia delle esplorazioni spaziali si racconta sempre di John Young, che nella missione Gemini 3 si portò dietro di nascosto un panino. Rischiò di compromettere, con le briciole, tutta la strumentazione di bordo: fortunatamente, fu beccato prima di masticarlo. Dopo ancora, fu la volta dell’acqua calda, che permise per la prima volta di reidratare gli alimenti, migliorandone nettamente il gusto.

DOMANI, IN ORBITA SI POTRÀ mangiare cibo vero e proprio, a chilometro zero. E persino made in Italy. Sembra fantascienza, eppure è quasi realtà. Il cibo prodotto nello spazio è una frontiera vicinissima e affascinante. Uno dei grandi obiettivi della ricerca spaziale oggi è produrre cibo direttamente in situ, in modo che sia sempre disponibile per gli astronauti e abbattere così costi e tempi di viaggi per i rifornimenti che diversamente sarebbero infiniti. Serre e orti spaziali, agritech estremo, espressioni di una sintesi perfetta tra futuristica innovazione tecnologica e agricoltura di base.

GRAZIE AGLI STUDI DELL’UNIVERSITÀ DI WAGENINGEN, Olanda, esistono già almeno nove specie di piante coltivate in serra con simulanti di regolite, cioè analoghi preparati per riprodurre le caratteristiche del terreno di Marte e della Luna, che danno vita ad altrettante verdure: crescione, rucola, pomodori, ravanelli, segale, quinoa, erba cipollina, piselli e porri. Per ora, gli esperti hanno fallito solo con gli spinaci. Intanto, gli astronauti dell’ISS, la Stazione spaziale internazionale, hanno già assaggiato l’insalata cresciuta in assenza di gravità («buonissima», secondo il nostro Paolo Nespoli).
La creazione di un ecosistema agricolo chiuso e sostenibile è una meta possibile. Coltivare nello spazio è essenziale in primis per assicurare rifornimenti agli astronauti, considerando che per arrivare su Marte ci vanno almeno nove mesi. Ma questi progetti visionari, i loro sviluppi, potrebbero essere un giorno importanti anche per la Terra.

È di matrice italiana lo studio attualmente in corso che ha portato già ad avere piccole serre di vegetali in orbita, senza terra né acqua, e che sta lavorando per rendere il sistema operativo per una produzione sufficiente ad alimentare in autonomia le basi spaziali. Dagli ulivi alle insalate, dalle patate ai pomodori, stiamo assistendo, anche in Italia, a una vera e propria corsa alla sperimentazione per l’agricoltura su Marte, e nello spazio in generale, per le future colonie umane.

ADATTARE LE COLTIVAZIONI A CONDIZIONI estreme extraterrestri richiede però una lunga serie di sperimentazioni e ricerche. Una delle più importanti e pionieristiche è la missione Amadee 18 realizzata nel deserto dell’Oman. A fornire cibo fresco ci ha pensato proprio l’Italia, con un orto ipertecnologico realizzato da Enea, Asi-Agenzia Spaziale Italiana e Università degli Studi di Milano, nell’ambito del progetto HortExtreme. L’orto marziano consiste in un sistema a contenimento di quattro metri quadri dove vengono coltivate quattro specie di micro verdure – amaranto, cavolo cappuccio, senape e ravanello – appositamente selezionate perché completano il loro ciclo vitale in circa 15 giorni e garantiscono un corretto apporto nutrizionale ai membri dell’equipaggio: un’alimentazione di alta qualità, grazie a un sistema di coltivazione fuori suolo con riciclo dell’acqua (il cosiddetto sistema idroponico) e senza l’uso di pesticidi e agrofarmaci.

LA RICERCA AGRICOLA SPAZIALE PUNTA anche a studiare gli equipaggiamenti che potranno essere impiegati in future missioni su Marte, come rifugi resistenti fino a -80 gradi e a venti oltre i 100 chilometri orari, e serre gonfiabili dotate di una rete di sensori per monitorare tutti i parametri indispensabili alla vita umana e vegetale.

TRA I MODULI AGRICOLI EXTRATERRESTRI in fase di sperimentazione c’è anche la serra costruita tra i ghiacci dell’Antartide, nella base di ricerca tedesca Neumayer Station III, finanziata dall’Unione europea, mentre sulla Stazione spaziale orbitante si stanno utilizzando moduli chiusi per coltivare in assenza di gravità varietà di frumento nano, ortaggi e spezie.

Walter Cugno, vicepresidente di Thales Alenia Space, centro torinese di eccellenza mondiale in campo aerospaziale, ha annunciato che i risultati della loro serra pilota in Antartide sono molto promettenti. Visto che nello spazio ci sarà bisogno anche di carboidrati e proteine, si lavora anche al frumento tenero e duro, al riso, alla soia e alla patata.

«REBUS» INVECE È UN PROGETTO PER REALIZZARE sistemi biorigenerativi, coordinato e finanziato dall’Agenzia Spaziale Italiana (Asi), al quale partecipano, tra gli altri, Enea, Cnr, Thales Alenia e le Università di Tor Vergata, Pavia e Federico II di Napoli, quest’ultima nel ruolo di capofila. Il sistema biogenerativo è basato sull’integrazione di diversi organismi come piante, funghi, batteri e cianobatteri, in modo da massimizzare l’uso delle risorse disponibili in situ e minimizzare contemporaneamente l’impiego di quelle esogene, riciclando la materia organica prodotta.

I SUOLI PLANETARI, HA SPIEGATO LA RESPONSABILE del progetto Stefania De Pascale, verranno utilizzati come substrato di coltivazione e i rifiuti della missione – residui di coltivazione, feci e urine – come fertilizzanti o biostimolanti, per produrre vegetali freschi, che potrebbero persino essere usati per contrastare malattie degenerative indotte da fattori spaziali, come le radiazioni.