L’immagine della giornata è stata quella del portavoce Sean Spicer che illustrava le virtù del piano repubblicano sulla salute. Una accanto all’altra in sala stampa erano state disposte copie dei due decreti: l’Obamacare, la riforma della sanità destinata a rimanere la legacy sociale di Barack Obama, una pila di fogli alta 40 cm. Accanto la legge «sostitutiva» dei repubblicani, alta nemmeno un quarto. «Vedete – ha spiegato Spicer ai giornalisti indicando i fogli con sussiego da maestro – «governo» (la legge Obama); «non governo» (il progetto repubblicano).

NELL’OTTICA degli integralistidel governo minimo che ora occupano la Casa bianca l’economia del linguaggio è prova sufficiente della superiorità della nuova legge. In realtà la «questione sanitaria» è uno dei problemi sociali più spinosi e complessi in America, un contenzioso ideologico che potrebbe costare caro ai repubblicani che da otto anni aspettano di mettervi mano.

L’opposizione alla riforma «socialista» di Obama è stata uno dei motivi fondanti della rivolta del Tea Party, nato come mobilitazione contro il «dirigismo» che in realtà si limitava a moderare il monopolio privato sulla salute. La principale virtù della legge Obama è stata estendere una copertura sanitaria di base a 20 milioni dei 40 milioni di americani che ne erano sprovvisti nell’unica democrazia industrializzata senza un programma di salute pubblica. L’assenza di una rete sociale aveva favorito la crescita di un ipertrofico mercato per i grandi assicuratori privati. È normale per una famiglia americana di 4 persone spendere 1.000 dollari al mese per una polizza privata.

CON UN MONOPOLIO di fatto, gli assicuratori sono stati liberi di usare ogni genere di sopruso: cure negate a malati terminali, rifiuto di vendere polizze a pazienti con «condizioni preesistenti», cittadini sul lastrico dopo aver subito interventi d’urgenza; il catalogo horror che conosce chi ha avuto la sfortuna di incappare nell’arcipelago sanitario americano. Per tutto il vanto della «migliore medicina al mondo», l’assistenza medica rimane miraggio per milioni di cittadini «scoperti« e fonte d’ansia per gli altri, costretti ad essere clienti di un sistema pensato per ottimizzare i profitti e minimizzare i costi.

MALGRADO QUESTO, secondo un antica dinamica che induce le popolazioni più disagiate del paese a votare contro i propri interessi, la destra populista ha cavalcato l’opposizione ad Obamacare dipingendola come un attacco alla «libertà di scelta». Un paradosso sotteso da correnti ideologiche votate alla meritocrazia, al darwinismo social. La crociata conservatrice contro il welfare si rafforza con il reaganismo e con l’attuale trionfo nazionalpopulista potrebbe infine compiersi, a cominciare dalla rottamazione della sanità.

MA LA CONTRORIFORMA rischia di costare cara ai repubblicani. La legge di Obama non è stata che un sottile e complesso compromesso storico fra gli interessi del mercato e quelli collettivi. Scartato il modello statale canadese o delle socialdemocrazie europee che chiedeva Bernie Sanders, Obama ha esteso la copertura introducendo l’obbligo di acquistare polizze private a fronte di sussidi federali. Comunque troppo per la destra iperliberista. L’indicazione di Trump è stata semplice: «La mia sanità sarà splendida». Per quadrare il cerchio intanto la nuova legge (in realtà una semplice modifica di Obamacare che diminuisce i sussidi) ha scontentato tutti: dall’ associazione dei medici ai falchi del libero mercato. La questione sanitaria promette cioè di mettere alla prima grande prova la coalizione fra i fondamentalisti del populismo antiglobalista e la fazione affarista che mira a gestire – dietro la facciata trumpista – l’interregno tardoliberista.