Mattarella darà l’incarico oggi pomeriggio anche se è ancora incerto su chi cadrà la sua scelta. Elisabetta Belloni, la diplomatica che pareva in pole position, sembra ora in predicato invece per il ministero degli Esteri. Per la poltrona chiave restano in ballo diversi nomi, incluso l’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli. Quindi il presidente spedirà il “suo” governo di fronte alle camere per incassare una sfiducia ormai certa. Mattarella è deciso a sciogliere le camere subito dopo quel voto e a fissare le elezioni per la prima data utile, a meno che non siano le stesse forze politiche, con una mozione parlamentare o con un qualsiasi altro espediente, a chiedergli di rinviarle sino all’autunno.

 

PROBABILMENTE IL CAPO dello Stato preferirebbe evitare un voto estivo che rischia di portare alle stelle l’astensionismo, di rendere impossibile l’esercizio dei loro diritti per molti elettori e di tagliare fuori dalle competizione le forze minori, che avrebbero grande difficoltà nel raccogliere di corsa le firme. Ha deciso ugualmente di restare fedele alla filosofia che lo ha ispirato in tutta la gestione della crisi e che ha riassunto ieri con una laconica frase pronunciata di fronte ai giocatori in procinto di competere per la Coppa Italia: «Un buon arbitro spera di non essere notato e può non essere notato se i giocatori sono corretti». Parole nelle quali c’è anche un non troppo velato rimprovero a quei giocatori che evidentemente tanto corretti non giudica, visto che ora deve per forza «farsi notare».

RESTA UNA SOLA POSSIBILITÀ residua per fare a meno di un ritorno alle urne senza che la legislatura sia stata ancora avviata. Passa per la disponibilità di Silvio Berlusconi a fare quel passo di lato che ieri, per la prima volta, la Lega ha chiesto esplicitamente, pubblicamente e anche con una certa brutalità. «Continuiamo a chiedere a Berlusconi un gesto di responsabilità per aiutarci a dare un governo al Paese: cercare una forma di presenza di Fi che sia compatibile con il governo con M5S», afferma papale il numero due del Carroccio, Giancarlo Giorgetti. Allo stesso tempo il leghista rintuzza eventuali tentazioni azzurre di appoggiare il governo del presidente. In quel caso «la coalizione sarebbe finita».

IL DESTINATARIO dell’ennesima avance è asserragliato nel fortino di Arcore e non risponde. Lo fa al suo posto Mariastella Gelmini, presidente dei deputati, ed è tassativa: «Irricevibile. Domanda malposta che non può che avere risposta negativa». Sembrerebbe un capitolo chiuso. Non lo è. Le pressioni sul leader di Fi sono proseguite e proseguiranno sino al giorno dello scioglimento delle camere. Non a caso Di Maio assicura che il suo telefono «è sempre acceso». Del resto era stato lo stesso Mattarella a chiarire che la formazione del suo governo, con o senza fiducia, non esclude affatto la possibilità di insistere con i tentativi di formare una maggioranza politica. Anzi.

A cingere d’assedio il signore d’Arcore perché si decida a cedere non è solo il Carroccio. Rumoreggiano parecchi parlamentari azzurri, che di rischiare una nuova e incerta prova elettorale non hanno alcuna voglia. Suggeriscono duttilità alcuni tra i consiglieri del giro stretto del capo. Ma Berlusconi resta inamovibile e il motivo principale è semplice: di M5S non si fida. Non crede a promesse e impegni. Il discorso sarebbe diverso se i suoi voti fossero essenziali per la nascita del governo. Ma sono solo aggiuntivi: un’arma spuntata. Per questo ieri sera ha diffuso una nota per smentire ogni voce su un suo possibile appoggio esterno.

TUTTAVIA IL MARTELLAMENTO prosegue. Proprio per questo, ancora ieri, il Quirinale specificava che il probabile incarico di oggi potrebbe essere evitato se arrivassero notizie positive sulla formazione di una maggioranza politica, quella appunto permessa dall’eventuale arretramento del Cav. Persino in quell’improbabile caso, in realtà, resterebbero scogli da superare perché tra i 5S molti insisterebbero per occupare palazzo Chigi, se non con Di Maio almeno con un altro pentastellato. Ma, rimosso l’ostacolo Silvio, il più sarebbe fatto.
L’ormai eterno tormentone dell’alleanze M5S-Lega correrà in parallelo alla parabola di un governo che partirà sapendo di non avere speranze di decollare. Proprio questa consapevolezza rischia di rallentare il lavoro del presidente per definirne la fisionomia. Si tratta di individuare un premier e poi dei ministri assolutamente prestigiosi e allo stesso tempo disposti a immolarsi per una causa persa. Non è merce che si trovi dietro ogni angolo.