I rapporti tra Turchia e Italia – militari, economici, diplomatici – sono così radicati che non deve stupire l’apparente repentino passaggio da «Erdogan dittatore utile» ad «amico e alleato». Cambia poco, la collaborazione non è mai stata in dubbio: 2,68 miliardi di export italiano in Turchia solo tra gennaio e marzo di quest’anno (+23,6%) e 9 nell’intero 2021; 3,1 miliardi di import turco in Italia (+33,4%) nei primi tre mesi del 2022 e 9,8 l’anno prima.

Martedì il terzo vertice intergovernativo si è chiuso con due nuovi accordi e cinque protocolli, una dichiarazione congiunta e una lettera d’intenti, con la conferenza stampa del presidente del consiglio Draghi e del presidente turco Erdogan che era una mezza sfilata di ministri per le firme nei settori di competenza.

C’è un po’ di tutto, pure le patenti di guida: reciproca protezione delle informazioni classificate nell’industria della difesa, consultazioni politiche istituzionalizzate (bilaterali regolari), formazione, cooperazione scientifica (progetti congiunti in ricerca e innovazione), di protezione civile e nello sviluppo sostenibile (dall’inquinamento marino alle foreste), collaborazione tra micro e medie imprese e treni ad alta velocità.

UNA COLLABORAZIONE solida che, come nel caso di altri regimi autoritari, non provoca mal di pancia. Erdogan non è diventato autoritario all’improvviso. Negli ultimi 20 anni ha scientemente costruito un potere assoluto camuffato da democrazia rappresentativa (si vota, no?) che avviluppa ogni aspetto della vita del paese: un’economia clientelare fondata su mega progetti infrastrutturali affidati a familiari e amici, gare d’appalto pilotate, scandali fiscali, neoliberismo, mix mortale che ha svuotato le casse dello Stato e provocato una crisi economica con pochi precedenti; epurazioni tattiche e sostituzione con persone legate all’Akp, il partito di governo, dentro ogni istituzione (educazione, magistratura, forze armate, pubblica amministrazione) che ha annullato il principio di separazione dei poteri; narrativa sessista e patriarcale che ha ridotto gli spazi di partecipazione politica delle donne e criminalizzato le persone Lgbtqi+; una politica di censura della libertà di espressione che ha fatto della Turchia uno dei primi tre paesi al mondo per giornalisti in carcere; uno schiacciamento del parlamento tradotto nella repressione istituzionalizzata dell’Hdp, partito di sinistra filo-curdo. E infine le politiche di potenza fuori dai confini, con l’invasione della Siria e i bombardamenti dell’Iraq.

Basta scorrere solo alcune delle ultime notizie. Ieri il ministro della giustizia turco Bozdag ha inviato di nuovo le richieste di estradizione di dissidenti turchi e curdi a Svezia e Finlandia (sarebbero 45 ufficiali, 73 ufficiose), mentre una corte d’appello confermava la condanna a un multa di quasi 2.300 euro per il principale partito di opposizione, il Chp, colpevole di aver criticato l’ex ministro delle finanze nonché genero di Erdogan per la sparizione di 128 miliardi di dollari dai fondi della Banca centrale.

Nelle stesse ore una commissione del parlamento turco approvava la sospensione dell’immunità alla deputata Saliha Aydeniz, co-presidente del partito pro-curdo Dbp. Ora toccherà al parlamento votare, ma si apre al processo: è accusata di aver spintonato un poliziotto a un corteo lo scorso 12 giugno, fascicolo aperto dopo che lo stesso Erdogan ha promesso pubblicamente che avrebbe «pagato il prezzo del tradimento».

INTANTO due membri dell’Hdp, Mesut Hayri Bökü e Naile Gümüstas, ieri venivano condannati per «terrorismo» rispettivamente a 10 mesi e 6 anni di carcere. Altri 14 membri del partito sono stati arrestati dopo il congresso di domenica: l’accusa, propaganda terroristica per slogan filo-Pkk e la richiesta di porre fine all’isolamento del suo leader, Abdullah Ocalan, nell’isola-carcere di Imrali.

Martedì, con Draghi in visita, ad Ankara tre giornalisti sono stati arrestati durante una protesta contro 16 precedenti arresti di reporter (per «terrorismo») e almeno 36 persone al corteo Lgbtq+ Pride, con la polizia che sparava lacrimogeni e spruzzava spray urticante sui partecipanti. La scorsa settimana, al Pride di Istanbul, erano stati arrestati in 300.

Domenica era la gendarmeria protagonista: spari su un minibus di rifugiati al confine con l’Iran, un morto e 12 feriti. Secondo le autorità non si era fermato all’alt. L’autoritarismo turco non è una novità, continuare a legittimarlo è una decisione politica.