Il lavoro delle Ong internazionali che operano in Turchia per fronteggiare l’emergenza umanitaria della guerra in Siria e Iraq si è complicato drammaticamente. Il 2017 ha già visto numerose revoche di licenze e l’allontanamento dal paese o addirittura l’arresto di operatori umanitari.
L’intervento delle autorità turche sembra dettato da un lento ma inesorabile istinto ad ostracizzare organizzazioni di cui non si fidano né comprendono appieno. Ad aprile sono state bloccate quattro Ong: Mercy Corps, Bsa (americane), Inso (britannica) e l’italiana Cosv, tutte per ragioni di sicurezza nazionale. Quest’ultima ha poi precisato che «i permessi concessi dalle autorità e scaduti il 15 gennaio sono formalmente in corso di rinnovo». L’indefinito prolungarsi dei tempi della burocrazia e del sistema giudiziario turchi sono una delle questioni che più rendono difficile l’operato di attori internazionali nel paese.

Nello stesso periodo operatori della danese DanChurchAid e dell’americana International Medical Corps vennero fermati dalle autorità e alcuni di loro allontanati dal paese. Di tutt’altro tenore il giro di vite contro le Ong nazionali: migliaia quelle chiuse in tutto il paese dall’agosto 2016 grazie ai decreti speciali emessi dallo stato di emergenza.

L’emergenza umanitaria siriana ha spinto fin dal 2011-2012 ad un accorrere generale di Ong e ad un proliferare di iniziative umanitarie che il governo turco permise di svilupparsi in una sorta di zona grigia della legalità, allentando i legacci della burocrazia. La combinazione tra il mutevole approccio legislativo del governo e l’inesperienza di alcune organizzazioni ad operare in concerto con uno stato rigido come quello turco, dalla burocrazia ipertrofica e con un’opinione pubblica con il nervo sempre scoperto dell’ingerenza straniera, ha portato le organizzazioni a subire azioni di coercizione da parte delle autorità.

A partire dal 2014 le autorità hanno cambiato approccio e hanno chiesto alle Ong che operano sul territorio di registrarsi. Nel 2015 la maglia della burocrazia si è stretta ulteriormente, con una verifica capillare dei permessi di lavoro che tutti gli operatori devono detenere. Ma è stato nel 2016 che la chiusura delle Ong è cominciata, in particolare dopo il tentato golpe e l’entrata in vigore dello stato di emergenza, che ha concesso al governo il potere per agire unilateralmente senza i vincoli normalmente imposti dalle legislazioni nazionale e internazionale.

Parallelamente, il governo turco cerca di attivarsi per sostituirsi alle attività delle Ong internazionali. Da un lato amplia le risorse per la Mezzaluna Rossa turca e l’Afad, l’Autorità per la gestione di emergenze e disastri, attraverso la quale la Turchia avrebbe finora speso per la gestione della crisi, secondo stime del governo, circa 12 miliardi di dollari.
Dall’altro potenzia la rete di organizzazioni di cui ha fiducia. Così è da leggersi il protocollo firmato tra Afad e Presidenza per gli affari religiosi (Diyanet), che include anche norme per fornire servizi di tipo religioso alla popolazione siriana rifugiata. Collegato a Diyanet c’è un universo di sigle ed organizzazioni umanitarie con un forte background ideologico affine al governo, come la Fondazione per l’aiuto umanitario (Ihh), attiva anche all’interno dei confini siriani.
Le preoccupazioni turche sul mondo delle Ong internazionali riguarda da vicino la questione curda. La Turchia è irritata dalla possibilità che il flusso di aiuti (materiali e finanziari) confluisca sia verso le regioni siriane sotto controllo curdo (Pyd e Ypg), sia verso il sudest del paese sottoposto ad operazioni militari e coprifuoco contro la presenza del Pkk.

Secondo il vice primo ministro Veysi Kaynak sarebbero 48 le organizzazioni che operano nell’ambito di migrazioni e rifugiati. Le attività di alcune di queste non sono accettate dal governo, ad esempio quelle nella zona di Diyarbakir, la principale città della regione a maggioranza curda, dove Ankara sostiene ci sarebbero pochi migranti da Siria e Iraq. Eppure il governo dimentica che anche circa 500.000 sfollati a causa delle operazioni antiguerriglia costituiscono un’emergenza, su cui però si vuole stendere un velo d’omertà. Secondo alcuni operatori intervistati in forma anonima, è praticamente impossibile per qualsiasi ong internazionale attivare progetti umanitari dedicati a questa emergenza nascosta.