Non si tratta del primo magistrato a finire in carcere per favoreggiamento della criminalità organizzata e, quasi sicuramente, non sarà nemmeno l’ultimo. La squadra mobile di Reggio Calabria, assieme ai reparti Prevenzione crimine della polizia di Stato, ieri mattina ha arrestato sette persone. L’antimafia calabrese li accusa di corruzione in atti giudiziari, aggravata dall’aver favorito la potente ‘ndrina Bellocco di Rosarno (Rc), attiva nella Piana di Gioia Tauro. Al giudice Giancarlo Giusti (47 anni), ex gip del tribunale di Palmi, è stata così notificata una nuova ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari.

La prima risale infatti al marzo 2012, quando l’antimafia di Milano lo aveva già costretto tra le mura domestiche nell’ambito di un’inchiesta condotta nel 2011 contro la ‘ndrina trapiantata in Lombardia dei Valle-Lampada che voleva entrare nel ricco affare dell’Expo. Per quest’altra vicenda, il giudice Giusti è stato sospeso dal Csm in attesa della sentenza definitiva e poi condannato in primo grado nel settembre successivo a quattro anni, sempre per lo stesso reato di cui è accusato ora: corruzione in atti giudiziari, aggravata dalla finalità di agevolare la ‘ndrangheta. La Direzione distrettuale antimafia (Dda) di Catanzaro che ha ordinato il blitz di ieri, vista la singolare unione che si sarebbe creata tra il magistrato e il clan, ha chiamato l’operazione «Abbraccio». Il giudice è accusato dai suoi colleghi di aver contribuito «al rafforzamento del programma criminoso» della cosca, ordinando il 27 agosto del 2009, in qualità di componente del tribunale del riesame di Reggio Calabria, la scarcerazione di tre esponenti di spicco della famiglia mafiosa (nel 2012 ci penserà la Cassazione a farli tornare dietro le sbarre al termine di un breve periodo di latitanza). Si trattava dello stesso capoclan Rocco Bellocco e di altri due uomini al vertice della ‘ndrina, Rocco Gaetano Gallo e Domenico Bellocco. A mettere di nuovo nei guai il giudice Giusti, un «certosino» lavoro investigativo. Dalle centinaia di intercettazioni telefoniche e ambientali emergerebbe quello che l’antimafia non esita a definire un «pactum sceleris» tra il magistrato e il boss, avvenuto «in un momento di particolare fibrillazione generata dall’esecuzione di numerose ordinanze di custodia cautelare in carcere (nell’ambito dell’indagine “Rosarno è nostra 2”, ndr) nei confronti di capi e gregari di quella ‘ndrina», si legge nell’ordinanza di custodia cautelare. Per quelle «scarcerazioni facili», che all’epoca suscitarono un forte clamore mediatico, al giudice sarebbero andati 120mila euro. «Tale accordo veniva siglato nell’estate del 2009, allorché Giuseppe e Gaetano Gallo (figlio e fratello del detenuto Rocco Gaetano Gallo), stringevano il patto corruttivo avvicinando Domenico Punturiero, mentre Domenico Bellocco, per ordine del padre Rocco, consegnava al suddetto Punturiero una parte del danaro costituente il prezzo della corruzione (Rocco Gallo forniva 40mila euro, cioè un terzo del prezzo della corruzione)». Tra il magistrato e gli ‘ndranghetisti, avrebbe fatto da intermediario proprio Domenico Punturiero, cugino dei Bellocco considerato il cervello imprenditoriale della cosca, che aveva già conosciuto il giudice durante dei business immobiliari condotti a Milano, tanto che l’antimafia parla di «indiscussa, amicale e affaristica frequentazione tra i due».

Al tribunale di Palmi, Giusti non sarebbe l’unico ad essere stato corrotto dalle cosche della Piana di Gioia Tauro (oltre ai Bellocco, i Gallico e i Pesce). L’8 gennaio del 2013, l’antimafia reggina aveva infatti arrestato per favoreggiamento aggravato, Roberto Crocitta, perito incaricato di ascoltare e poi trascrivere le intercettazioni dei procedimenti penali che riguardavano le più importanti ‘ndrine della zona. Grazie a piccole e sapienti modifiche, come il cambio di una consonante, l’uomo mutava negli atti il significato di una frase a vantaggio dei mafiosi: «Così li prendevamo tutti e due in una volta…», diventava ad esempio «così li prendevano tutti e due in una volta…». Sembra una differenza di poco conto, eppure la contestazione di un capo di imputazione grave veniva in questo modo ostacolata.