L’esodo è cominciato domenica mattina ed è finito soltanto quando s’è fatta sera. I 432 coraggiosi abitanti di Arquata del Tronto che avevano deciso di rimanere in paese sono andati tutti via, verso gli alberghi di San Benedetto del Tronto. Non c’è stato nulla da fare. La popolazione residente nel paese, ad oggi, è pari a zero. La tendopoli allestita nel campo sportivo di Borgo serve soltanto ad alloggiare le forze dell’ordine e gli operatori che quassù ci vengono per lavorare.

IL SINDACO Aleandro Petrucci ha anche firmato un’ordinanza di sgombero totale: tutta zona rossa, il paese e le sue frazioni. I militari fermano le macchine alla prima curva dopo il campo base, non si passa.
Non c’è nessuno nemmeno a Trisungo, l’insieme di casette adagiate sulle sponde del fiume Tronto aveva resistito alla botta del 24 agosto, era uscito provato dai due colpi di mercoledì sera e poi ha ceduto definitivamente alle 7 e 41 di domenica mattina, quando i sismografi hanno registrato la scossa più grande dal 1980: 6.5 gradi sulla scala Richter.

Davanti ai container che ospitano gli uffici del Comune di Arquata ieri mattina c’era un piccolo capannello di persone, allevatori che non vogliono lasciare i propri animali, il sindaco Petrucci parla con tutti, ma non può che ammettere la propria impotenza di fronte a un evento che nessuno riesce a controllare. «Questa gente io la capisco bene – dice –, ma non posso fare altrimenti. Io sono in balia degli eventi, qui dobbiamo ricominciare da capo un’altra volta. È durissima», e scuote la testa, perché il suo paese gli sta morendo tra le braccia senza che lui riesca a fare niente, perché il terremoto non se ne va, torna sempre, colpisce a sorpresa e terrorizza. «Quando è arrivata la scossa stavo tagliando la legna – racconta il signor Pietro, allevatore che, in attesa di capire cosa fare, dorme in una roulotte in campagna aperta –, la terra ha cominciato a tremare fortissimo e il tavolo praticamente camminava. Si sarà spostato di mezzo metro, io una così forte non l’avevo sentita mai nella mia vita».

ALZANDO lo sguardo si vede il paese alto: le case già lesionate ad agosto sono crollate del tutto, anche la Rocca ha accusato il colpo, con la sua torre che ha perso quasi completamente le guglie. «È impossibile arrivare là sopra – spiega ancora Petrucci –, non c’è più niente, nemmeno le strade». Anche il mitico bar Ciccio, che il 26 agosto già aveva ricominciato a servire caffè, ha abbassato la serranda. Stessa cosa per i negozi della Salaria: la farmacia, il macellaio, l’altro bar. È andata via anche la signora Dora, 93 anni, titolare di uno storico bar a Petrare, a poche curve da Borgo. Lei voleva continuare a fare quello ha fatto per tutta una vita: caffè per tutti, e per questo si stava anche pensando di mettere su una specie di locale dentro a un container. Tutto sbarrato. Solo il meccanico continua a lavorare nel suo capannone.
Su un muro del container comunale c’è un manifesto firmato a mano dal sindaco che annuncia la convocazione dei comizi per il referendum del 4 dicembre: «Ma non so dire come faremo ad andare a votare», conclude laconico Petrucci.

GUIDO FRANCHI è il papà di Michele, il vicesindaco che sabato scorso è salito sul palco del Sì in piazza del Popolo a Roma. Si avvicina esibendo una tessera del Pci del 1980, quando lui qui era segretario di sezione. «Vede, questa è la mia firma, e quest’altra è quella di Berlinguer», racconta con orgoglio nella voce. «Negli ultimi giorni stavamo quasi tornando alla normalità – dice Franchi – i ragazzi del paese avevano anche organizzato una castagnata in piazza per ieri sera (domenica, ndr), ma ovviamente non l’abbiamo fatta».

La terra trema in continuazione, non sta ferma un attimo. Basta sedersi su una panchina per accorgersi che le repliche si susseguono senza soluzione di continuità. Quelle più forti delle altre paralizzano la gente in strada per qualche secondo, poi ognuno torna a fare quello che stava facendo prima, perché in fondo ci si può abituare proprio a tutto.

DIETRO al monte Vettore, verso ovest, c’è la piana di Castelluccio: il giardino dei fiori colorati che spuntano a primavera, delle lenticchie e del parapendio, dei workshop fotografici e con i muri pieni di scritte in vernice risalenti agli anni ’60. Quei muri sono crollati tutti. Domenica mattina i venti residenti rimasti sono stati portati via in elicottero perché la strada che entra ed esce dal paese è completamente inagibile, squarciata e invasa dai massi e dalle pietre. Castelluccio si è sgretolato e anche il Vettore ha perso pezzi: la polvere ha colorato la piana di grigio.

Oltre ancora c’è Norcia, il luogo simbolo dell’ultimo assalto del terremoto. Arrivare è complicato, andare oltre le mura ancora di più. I capannoni della zona industriale con le norcinerie e le fabbriche del cioccolato sono quasi tutti lesionati, mentre la parte antica è una distesa di calcinacci. Domenica mattina i frati e le suore camminavano senza meta insieme agli abitanti che avevano perso tutto: dall’esterno delle case gli squarci nei muri lasciavano intravedere gli interni, il simulacro di una vita che non esiste più. Anche qui nessuna vittima, ma macerie, pietre e polvere sono ovunque. Della basilica di San Benedetto è rimasta in piedi soltanto la facciata. Dietro non c’è più niente. Nemmeno le preghiere.