Nel romanzo autobiografico Parigi era viva, pubblicato da Garzanti nel 1949, l’editore e scrittore d’arte Gualtieri di San Lazzaro ricordava che Jean Arp aveva «l’aspetto di un poeta; i suoi poemi erano però dei rilievi, delle incisioni, delle sculture, di cui egli parlava come se fossero opere di un altro, di un fratello, di un caro amico scomparso o lontano». Era l’incipit, questo, di un lungo ritratto umano dell’artista dadaista (ma ormai a tutti gli effetti surrealista) attraverso il quale San Lazzaro faceva emergere le ragioni di determinate scelte figurative. Il suo Arp era un uomo trasognato, ironico, acerrimo oppositore del regime nazista, ma soprattutto un personaggio di modi gentili e non retorici che aveva fatto della leggerezza uno stile di vita. «C’era da giurare», si legge nelle sue pagine, «che le sue mani non avevano mai toccato la creta, il gesso o un pennello. Erano mani di poeta, che appena potevano sopportare la penna».
Indubbiamente la lunga consuetudine dello scultore alsaziano con la scrittura in versi e in prosa – dalla poesia alla riflessione sul fare artistico fino a brevi frammenti di memorialistica «arpocrifa» (vedi Tessa Paneth-Pollak nel catalogo della mostra che andiamo a recensire) – facilitava l’associazione fra la sua immagine e l’iconografia dell’uomo di lettere, ben diversa da come potevano presentarsi gli altri scultori attivi sulla scena parigina in quel momento, meno sofisticati sia di aspetto che di modi e, soprattutto, di finezza concettuale.
Tornano alla mente queste brevi riflessioni visitando La natura di Arp, fino a 2 settembre alla Guggenheim di Venezia, proveniente dal Nasher Sculpture Center di Dallas, curata da Catherine Craft. Ma ci si rende anche conto che nonostante plurimi tentativi di messa a fuoco, il profilo di Arp rimane seducente e imprendibile, ironico ma sfuggente, aleggiando, scriveva sempre San Lazzaro per una mostra del 1957, in una «felice Arpadia». Egli prendeva le mosse dalla stagione eroica del Dadaismo zurighese, fin dalle origini al Cabaret Voltaire, per approdare al Surrealismo di Breton una volta a Parigi, ma senza nette cesure nella transizione sfumata dall’uno all’altro, e senza indugio nel riprendere periodicamente un repertorio formale già rodato.
Solo la morte nel 1943 di Sophie Tæuber-Arp, l’artista svizzera sposata nel 1922 con cui si era stabilito a Parigi nel ’26, costituirà un vero spartiacque nella sua vita, portando Arp verso lo spiritualismo e la fede nella vita ultraterrena. Allo stesso tempo, come la mostra sottolinea a più riprese, nella stagione dada egli era arrivato a una concezione aperta dell’opera d’arte: le sagome di legno colorate, che costituivano i suoi rilievi, erano avvitate al supporto, anziché incollate o inchiodate, al fine di consentire un minimo e impercettibile movimento delle forme, persino un loro riassetto nell’economia compositiva generale. Al contempo, con un abile colpo di mano, aveva messo in discussione la necessità di rispettare la convenzione della cornice e del piedistallo, percepiti da lui come «inutili grucce»: i contorni dei rilievi diventano morbidi e irregolari, sempre più vicini a forme organiche, lasciando lo schema più libero, con la possibilità di modifiche e intervento. Già da allora, del resto, aveva messo a punto una tecnica derivata dal collage ma portata sulla terza dimensione: a prima vista potrebbero sembrare semplici superfici dipinte, ma in fotografia lo scultore alsaziano desiderava che si evidenziasse lo spessore del supporto con luci radenti che provocassero ombre profonde mostrando lo stacco dei piani. Di quell’aggetto, infatti, si era saputo servire per arricchire la qualità pittorica e sensibile della superficie: non contento forse del rapporto fra campiture di colore uniforme, arriverà persino a colorare lo spessore del rilievo, in modo da provocare un riverbero colorato sul piano dipinto di bianco della scultura, anticipando soluzioni che avrebbero avuto grande fortuna a fine secolo.
Su queste premesse aveva dato vita a un mondo fantastico, fatto di presenze metamorfiche di memoria naturale ma mai pienamente riconducibili a un referente specifico: proprio qui si costruisce l’ambiguo rapporto con le molteplici «nature» con cui secondo la curatrice si misurerebbe l’artista. Arp stesso, in effetti, aveva affermato nel 1931 che «l’arte è un frutto», nel senso che nella sua realizzazione dovrebbe evocare processi naturali, ma scegliendo questa via si chiamava fuori dalla polarità, per dirla con Worringer, fra «astrazione» ed «empatia». Il suo stesso immaginario, la sua idea di forma «voluttuosa, ma non sensuale», secondo la Craft rimanda per analogia all’anatomia umana, a cui talvolta si rifà esplicitamente, ma che il più delle volte, specie dopo l’approdo alla scultura in gesso all’inizio degli anni trenta, risveglia nei sensi l’idea della carne umana, ma come concrezione dalla consistenza organica più che come riconoscimento di parti del corpo: non mancano apparizioni di seni applicati nei punti più impensati di una struttura plastica come elementi di una costruzione più complessa, allo stesso modo in cui in certi rilievi compaiono piccoli tocchi di colore come unghie smaltate, ma devono interagire con tagli netti e piani spigolosi rientranti ereditati dalle sperimentazioni dadaiste e dall’affiancamento con ricerche concretiste. L’artista ne era ben consapevole, scrivendo nel 1920 di voler raggiungere, in termini surrealisti, «la creazione di un nuovo corpo al di fuori di noi, che ha vita come noi, si appoggia agli angoli dei tavoli, popola i giardini, guarda giù dalle pareti. Egli vuole l’astrazione». Questo lo renderà simpatico ai difensori dell’astrazione «concreta», che riusciranno a coinvolgerlo in qualche mostra ma non lo avranno mai completamente dalla loro parte.
Arp infatti non rinuncia mai al gioco surrealista, come dichiara sin dalla prima scultura in gesso, il nuovo materiale congeniale alla deflagrazione del suo mondo di forme levigate ma non lucenti, e per questo di tono volutamente dimesso e inquieto, che colmerà di ammirazione anche una detrattrice dell’ispido materiale come la scultrice britannica Barbara Hepwort, in visita nel suo studio nel 1933: con il suo colore opaco che trattiene la luce, il gesso era l’unico materiale idoneo, tramite una paziente lavoro di levigatura, ai suoi morbidi e metamorfici volumi. Non mancheranno, naturalmente, delle eco di classicismo, specie in certi torsi danzanti dai sinuosi allungamenti, ma la vera scommessa di Arp si gioca nell’effetto di un’immagine mossa dall’animazione interna di un corpo senza organi ma ricettore sensibile. I Tre oggetti fastidiosi su un volto del 1933, che fanno da immagine-guida nel catalogo, sono tre piccoli oggetti che strisciano su una superficie collinare in cui si riconosce l’accenno a un volto, o meglio una maschera, distesa fino a trasformarsi in un paesaggio: il surrealismo di Giacometti era alle porte, anche se quel naso restava un promontorio e non si era ancora allungato a dismisura. I due, però, sarebbero stati gli apripista di ricerche che vanno in direzioni completamente diverse: da Arp, come nota la Craft, discende Henry Moore (ma anche Alberto Viani). Eppure, le strade aperte dal maestro alsaziano erano più di una. Se ne era accorto, ancora una volta, San Lazzaro, che nel 1957 si chiedeva: «Senza i “rilievi” di Arp, avremmo mai avuto i “découpages” di Henri Matisse? E le “maschere” di Paul Klee, non sono forse gemelle di quelle di Arp?».