Arooj Aftab somiglia un po’ a Nadia, la protagonista dello straordinario romanzo del pakistano Moshin Amid: è giovane, nata in una città del Medioriente sull’orlo della guerra, porta il velo a scuola ma sotto nasconde jeans e animo ribelle. Si fa le canne, scopa liberamente con Saeed, che ha incontrato al corso di grafica, e non ha paura di spalancare le porte che aprono le loro vite al mondo intero. «Non l’ho ancora letto ma mi era piaciuto molto il suo esordio, Il fumo della falena (uscito, come gli altri, per Einaudi)», racconta la musicista trentaseienne in una lunga chiacchierata intercontinentale dopo un paio di mesi di inseguimento, «è stato uno dei primi scrittori pakistani a raccontare il Pakistan in modo vivo, nuovo e necessario». 

Cresciuta anche lei a Lahore, come lo scrittore, ora si è stabilita a Brooklyn dopo aver studiato jazz e audio engineering al Berklee College of Music di Boston nel 2005, e sembra avere le idee molto chiare su che fare della sua vita. 

«Semplicemente in Pakistan non c’erano scuole di musica, strutture commerciali, e volevo farlo in modo moderno, e Boston era perfetta. Voglio dire, sto ancora pagando un grosso prestito per pagarmi gli studi ma ogni tanto succede che credi nei tuoi sogni e sei disposta a tutto per ottenere ciò che desideri, piuttosto che deprimersi», fa lei solenne. Ogni tanto ridacchia, Arooj, sbuffa, mugugna, comincia una frase, poi ci ripensa e sbuffa di nuovo.

Scoprire la musica di questa giovane donna è come aprire una di quelle porte del romanzo di Amid, e rimanere scioccati nell’entrare in un mondo totalmente nuovo e fortunoso: l’arpa e il contrabbasso si intrecciano creando un tappeto sonoro jazzato su cui irrompe, con una forza arcaica, la voce di Arooj, che rapisce irrimediabilmente e magicamente. È l’apertura di “Vulture Prince”, suo terzo disco uscito da poco per la New Amsterdam – raffinata etichetta avant-garde newyorkese – osannato ovunque nel mondo come uno dei dischi più interessanti dell’anno. Se il disco d’esordio, “Bird Under Water” (2015), tracciava una rotta improbabile tra il canto Qawwali di Nusrat Fateh Ali Khan e il jazz minimale, e il secondo “Siren Island” (2018) si inerpicava in territori ambient, ispirandosi alle Metamorfosi di Ovidio, il nuovo lavoro mette al centro di tutto la sua straordinaria voce. Canzoni esili, quasi senza ritmica, con strumenti ad arco ed elettronica minimale che sostengono la sua voce possente. «È successo in modo molto naturale, ho cercato di stare alla larga dal pop più che ho potuto, perché non credo che il mondo del pop sia totalmente bello. E non so nemmeno se ne sono capace, ma questo disco è una sorta di intersezione tra pop, indie, folk, jazz, e la musica delle mie origini…», sussurra lei.

Cresciuta ascoltando in famiglia antiche Ghazals, le ballate urdu cantate in tutta l’Asia del Sud, vi si appoggia dolcemente, raccontando di dolore e accettazione, di vita e morte. Ma con un fondo di speranza. «Io penso che il dolore sia qualcosa che finisce per diventare parte di te nella vita di tutti i giorni, chiamato accettazione. Ma in definitiva non è solo qualcosa che sei destinato a superare, ma qualcosa che diventa parte della tua storia. E se guardi il tempo che passa, il tempo è il tuo miglior amico e guaritore, diventi tutt’uno con la cosa che ti ha causato questo dolore». Rimango in continuazione stupefatto e sopraffatto dal suono delle parole di Arooj Aftab, e vorrei che non finisse mai di raccontare. La incalzo, e a un certo punto sbuffa: «Mio dio quante domande». Poi ridacchia, buttandosi a capofitto in un’altra lunga e tortuosa elucubrazione sulla figura del Principe Avvoltoio che io pensavo derivasse dal rito funebre dello zoroastrismo, ma che lei smonta un po’ come se fosse la cosa più semplice del mondo. «Mi ha ispirato, certo, ma il mio Principe Avvoltoio non è direttamente connesso al zoroastrismo. Sono sempre stata affascinata dagli uccelli, era il tema del mio primo album… ma pensavo a un’immagine quasi androgina… gli avvoltoi sono esseri antichi, citati in tante storie folkloristiche in giro per il mondo. Hanno anche un significato mistico nel senso della nostra vita. Il mondo è un cerchio di vita. Ho immaginato questo principe degli avvoltoi, non uno che comanda come un Re o una Regina, ma uno o una che non ha tanta responsabilità, ed è quieto e rilassato. Un essere capace di andare e venire da varie dimensioni, trasformarsi da animale a arcaico essere mistico, molto sexy». 

Mi racconta di aver lasciato il suo paese e di non aver portato con sé alcuno strumento appartenente alla sua cultura, ma Arooj Aftab ha le radici ben piantate nella sua Lahore, la città-giardino, e la testa che vola alta. «You can take the Lahori out of Lahore, but you cannot take Lahore out of the Lahori», dice a un certo punto, e ridiamo. «Essere una musicista significa che il tuo viaggio è tutto da fare… ininterrotto… la tua visione diviene sempre più chiara più tempo passa», chiosa lei.

Nonostante durante la composizione dell’album abbia perso il giovane fratello Maher, l’amica modella e giornalista Annie Ali Khan – autrice del testo della struggente “Saans Lo” – e la pandemia abbia scardinato quasi tutte le certezze, Arooj non ha mai perso la speranza del fare. «La musica è sempre stata una mia grande amica, la mia terapia, la mia catarsi. Il mio modo di processare i sentimenti. Che fossero di felicità, amore, difficoltà. Faccio confluire tutto nella musica. Il mio album mi ha preso per mano e mi ha detto “possiamo farcela”, “possiamo creare bellezza”, arriveremo in un luogo che è un po’ più quieto di come ti senti ora».

La ragazza canta in inglese, urdu, suona chitarra e sintetizzatori, ascolta contemporaneamente Mariah Carey e Hari Prasad Chiaurasia, gioca con l’oscurità e la luce e, mescola la tradizione con la sperimentazione. «La vita è un po’ così, yin e yang, up e down, e dobbiamo rompere la consuetudine di ciò che ci si aspetta da ognuno di noi», dice lei, e poi torna a mugugnare qualcosa di incomprensibile, ci ripensa, ridacchia, e resta in silenzio. La sua musica, che nasce dal sufismo nella sua ripetizione, raggiunge l’assoluto trasformandosi in minimalismo di matrice contemporanea. «Quando la band e la mia voce e tutti gli strumenti suonano all’unisono, tutti sono uno… non sto esibendo le mie doti vocali, semplicemente raccontiamo all’unisono ogni canzone che è una grande storia», racconta lei. Mentre sopra le nostre teste fa ombra la straordinaria apertura alare di un avvoltoio, uno degli ultimi. Perché, a quanto pare, l’inquinamento delle città dell’Asia del Sud sta decimando anche loro. Strano a dirsi, ma il Principe Avvoltoio ci conduce dall’oscurità alla luce.