La fotografia come necessità per la ricostruzione del sé nel superamento di traumi che arrivano da lontano: ad Arno Rafael Minkkinen (Helsinki 1945, vive e lavora a Fosters Pond, Massachusetts), a cui i genitori diedero un nome che era un omaggio al Belpaese (Arno dal fiume e Rafael dal maestro del Rinascimento), i problemi si palesarono nel giorno stesso in cui vide la luce nel rifiuto della madre che avrebbe voluto una figlia femmina. Non solo, aveva pure il difetto fisico del labbro leporino che gli causò dolori e non poche frustrazioni fino agli anni del College. Questo signore altissimo e magro con capelli e barba candida presente al Si Fest – Savignano Immagini Festival (30/a edizione con la direzione artistica di Denis Curti) in occasione della personale Uguale ma diverso (fino al 26), ricorda di essersi rispecchiato nell’immagine iconica del ragazzino con la granata-giocattolo scattata da Diane Arbus nel ’62 a Central Park.

Aveva più o meno la sua età quando, nel 1951, i suoi genitori decisero di emigrare negli Stati Uniti. «Ero quel bambino che girava per Brooklyn senza sapere una parola d’inglese». Al mezzo fotografico si avvicina all’inizio degli anni ’70 da autodidatta, conseguendo nel ’74 il master in fotografia alla Rhode Island School of Design con gli insegnanti Harry Callahan e Aaron Siskind.

«Harry è diventato come un padre per me. Mentre, però, il mio vero padre voleva che studiassi di più Kierkegaard, lui insisteva che sapessi di più di me stesso». Viaggiatore solitario, Minkkinen – vincitore di premi tra cui il Guggenheim Fellowships 2015 e autore di numerosi libri fotografici a partire da Waterline che gli è valso il 25th Rencontres d’Arles Book Prize – si mette a nudo davanti alla macchina fotografica. «Non c’è manipolazione, né vestiti, né in genere altre persone: l’unico occhio che ha accesso al mirino è il mio». Sfidare i limiti delle possibilità vuol dire continuare a lavorare nel tempo – oltre cinquant’anni – sullo stesso soggetto. Nelle sue foto in bianco e nero l’autoritratto e il nudo maschile si adattano alle forme della natura: rocce, fiumi, neve, mare, alberi… Arno Rafael Minkkinen ama soprattutto le betulle che considera «i dalmata della foresta».

Ha affermato che la fotografia è la guardiana di un certo tipo di verità collegata alla storia o al territorio in cui ci si trova. Nello scegliere il suo corpo – quindi l’autoritratto – c’è sempre stata la consapevolezza delle sue potenzialità come elemento di raccordo e confronto nella ricerca tra sé e il tutto?
Nelle mie fotografie sento una sorta di pressione dettata dal tempo. Nelle fotografie non si vede, ma tutto cambia: la luce, le circostanze. Succedono cose completamente al di fuori dell’inquadratura, ma io devo lavorare con il tempo e lo spazio che ho e trovare una risposta. Anche rischiando di peccare di immodestia, devo dire che mi piacciono molto le risposte che ho trovato. Penso sempre a quello che il pubblico vedrà, a come posso rendere ciò che faccio visivamente emozionante. Non come un artista performativo, perché produco una sola singola immagine e ho bisogno che funzioni. Per farlo ho bisogno di avere dalla mia parte gli dei, la fortuna e la forza. Non abbiamo abbastanza tempo su questo pianeta per preoccuparci troppo e avere paura di vederci nudi nella natura, perché la natura stessa è nuda.

La foresta è nuda, i canyon sono nudi, l’acqua non indossa vestiti. Ho scattato una serie di foto con mio figlio Daniel (dal 1979 fino a quando aveva 19 anni), e ho anche foto di me stesso da vecchio. Avrei fotografato volentieri qualcun altro, ma sono foto veramente difficili e pericolose. Il pericolo non è visibile ma è presente all’interno di quasi ogni immagine, anche quella che ho scattato questa mattina qui a Savignano fuori dalla mia camera d’albergo. Soprattutto nella tradizione del nudo – parlo dell’autoritratto – nessuno scatta all’aperto e nella natura, forse l’ha fatto solo Anne Brigman in California all’inizio del secolo scorso, ma vedere un uomo solo che se ne va in giro nudo è raro. Ad ogni modo, per rispondere alla domanda, la consapevolezza del mio corpo e di quello che può fare si combina con la mia conoscenza della fotografia e le istruzioni che do alla fotocamera, posizionandola in un punto preciso e lasciandole fare tutto il lavoro nei 9 secondi a disposizione dello scatto. Io non sarò lì dietro ma nella fotografia. Rispetto la mia fotocamera al punto da renderla fotografa. Io non sono che il regista.

Il suo corpo nudo, spesso nel dettaglio di una mano o di un piede, è sempre in tensione. Talvolta si mimetizza con la natura incontaminata, altre manifesta un guizzo d’ironia. La costruzione del set è preceduta da quella concettuale e lo scatto prevede anche il fuori controllo?
È più che altro un elemento incontrollato. Si tratta di fidarsi di ciò che è fuori controllo. Parto dalla domanda «Cosa succede se… vado da qui all’altro lato della scogliera? Potrei trovare un’immagine? E se scavo un buco nella neve e mi ci metto dentro, posizionando la fotocamera e allineandola con il punto in cui la mia mano esce dalla neve?». Cerco di rispondere alla domanda che mi viene posta dall’immaginazione. Due parti di me, il mio corpo e la mia immaginazione, sanno che sono in quel posto meraviglioso per fare una foto. «Dove sei?» dico alla fotocamera e a me stesso. «Dov’è la fotografia?».

La presenza dominante dell’acqua, anche sotto forma di neve, ha un significato particolare per lei considerando le sue origini scandinave?
Penso proprio di sì. Con la mia famiglia abbiamo attraversato un grande bacino d’acqua quando siamo andati dalla Finlandia a Brooklyn. Avevo sei anni, eravamo immigrati. Non sapevo cosa fosse l’oceano ma era sempre lì ogni giorno. In Finlandia abbiamo dei laghi che a volte sono così lontani che si vedono solo le isolette che galleggiano, ma poi quando ci si avvicina diventa un mare immenso. L’acqua mi affascina non solo per la sua capacità fotografica di riflettere, anche per quella di diventare una metafora per l’altra anima, l’ignoto, il sorprendente. L’acqua è così mutevole e magica che è quasi una mia rivale, potrei anche non esserci nella foto per quanto è bella.

Tornando indietro al primo workshop che fece con John Benson, lo specchio è stato un elemento chiave…
All’inizio non volevo puntare la fotocamera direttamente su di me, così mi sono chiesto come sarei potuto apparire nudo attraverso uno specchio. Ho messo lo specchio a terra e questo ha cambiato tutto! Prima di ciò ero un copywriter e lavoravo per un’agenzia pubblicitaria a Madison Avenue. Al colloquio, quando mi chiesero se avessi nozioni di fotografia, avevo risposto di possedere una vecchia Linhof che mi aveva dato mio padre. Alla parola Linhof rimasero colpiti, perché è come dire Ferrari quando si ha a che fare con le automobili: il giorno dopo ero assunto. Ho imparato a fotografare da autodidatta. Due mesi dopo mi portarono al quartier generale della Minolta presentandomi come l’esperto dell’agenzia. Mi sono innamorato della macchina fotografica, della sua bellezza e complessità. Sono anche l’autore dello slogan della Minolta – «Quello che succede nella tua mente può succedere dentro una fotocamera» – che è diventato anche il mio slogan personale. Diversamente dalla pubblicità, la fotografia mi ha permesso di creare qualcosa che durasse nel tempo.

Quando decisi di fare il workshop dovevo scegliere tra alcuni insegnanti ma non conoscevo nessuno di loro. Un amico fotografo mi suggerì di andare al MoMa e vedere il loro portfolio. La lista dei nomi includeva Bruce Davidson, Aaron Siskind, Robert Frank, Harold Jones, Diane Arbus ed altri. Guardai i loro lavori con i guanti bianchi e quando arrivai all’ultimo, quello della Arbus, dopo aver visto la foto del bambino con la granata, lo chiusi. Sapevo con chi avrei voluto lavorare. Tuttavia, due settimane prima dell’inizio del workshop, nel luglio 1971, ricevetti una lettera in cui venivo informato che il laboratorio con Diane Arbus era stato cancellato, ma c’era un posto per studiare con John Benson. Non c’era scritto che la fotografa aveva deciso di lasciare questo mondo.

Benson era un ottimo insegnante e, dopo aver guardato le foto che avevo fatto nei primi due giorni di lezioni – cavalli, mucche, fienili, e ancora cavalli – scosse la testa. Non avevano proprio nulla a che fare con il suo insegnamento. Mi disse di prendermi un giorno libero. Per tutto il mercoledì ho gironzolato lasciando la fotocamera nella mia stanza. Camminai nei campi e lungo la strada, poi la mattina dopo presi uno specchio che avevo visto dietro a un fienile e con un paio di cani al seguito iniziai a salire la collina. Mi misi nudo di fronte allo specchio e scattai quella fotografia nelle Catskills, davanti al confine tra Massachusetts e Connecticut. Un giorno importante perché se John Benson avesse accettato i miei cavalli non sarebbe stato un bravo insegnante e tutto sarebbe stato diverso.