Bordeaux, in place Camille Julien, un sax di strada, che snocciola classici come Somewhere Over the Rainbow o As Time Goes By, accompagna l’attesa dell’arrivo di Arnaud Desplechin, impegnato pochi metri più avanti a presentare al pubblico del FIFIB, il Festival del Film indipendente, il suo capolavoro del 2004 I re e la regina. Narratore sublime di memorie affettive e collettive, creatore di case, mondi e di discorsi amorosi, il regista francese, reduce dalla recente vittoria del Prix SACD alla Quinzaine des Réalisateurs con Trois souvenirs de ma jeunesse, ha presentato e assistito a tutte le proiezioni della retrospettiva a lui dedicata, aggiungendo di volta in volta, con la confessione e l’aneddoto, un dettaglio in più al suo grande romanzo cinematografico, scritto fra le ragnatele della vita, delle amicizie e delle relazioni.
Puntuale arriva, felice perché la copia proiettata è in 35mm: «Non amo che i miei film siano proiettati in Blu Ray perché così la sala cinematografica è usata come un grande televisore». Poi lievemente preoccupato aggiunge: «Però meglio non pensare ai miei vecchi film».

L’idea di questa retrospettiva la spaventa così tanto? 

È una cosa che rifuggo, non voglio pensarci. La mia unica preoccupazione è avere delle nuove copie, sono ossessionato dal non voler mostrare quelle vecchie. So che le nuove generazioni un po’ se ne fregano ma, per la mia esperienza da spettatore, è fondamentale vedere i film nelle migliori condizioni di visione. Nemmeno la generazione precedente alla mia, quella della Cinémathèque, era così interessata, se la copia era grigia andava bene ugualmente, anche perché Henri Langlois era solito dire: «Un film è sempre un film». Qui a Bordeaux è stato molto eccitante perché ho fatto restaurare le copie dei miei primi due film ma alla fine forse è solo un stupido trucchetto per sfuggire all’idea di una retrospettiva, è come se mi sentissi Jean Pierre Leaud ne Le due inglesi quando si specchia nel vetro della macchina e vede quanto è invecchiato.

desplechin

La sua filmografia è costellata da rimandi a film precedenti, citazioni, corrispondenze fra personaggi, nomi ossessivamente ripetuti. Quanto è importante per lei che uno spettatore conosca e metta in relazione i suoi lavori precedenti? 

Ci sono connessioni fra i film che faccio ma spero che ogni film abbia la sua identità anche se è buffo però perché poco prima di iniziare le riprese di Trois souvenirs de ma jeunesse, ho incontrato i due attori protagonisti, che non conoscevano i miei film precedenti, e mi hanno chiesto se dovevano recuperarli, in modo particolare Comment je me suis disputé…(ma vie sexuelle) visto che quel film raccontava la vita dei loro personaggi dieci anni dopo. Li ho pregati di non vederlo perché è un vecchio film che non appartiene alla loro generazione e ovviamente, subito dopo aver lasciato la stanza, si sono precipitati al computer a scaricare il film ma non l’hanno confessato fino all’inizio delle riprese. Quindi forse questo bisogno di conoscenza c’è.

In «Trois souvenirs de ma jeunesse» lei lavora per la prima volta con attori giovanissimi… 

Sì e forse per questo ho la sensazione che sembri quasi un’opera prima ed è come se avessi avuto bisogno di questi giovani per reinventare me stesso. È un film che assomiglia a Gli amori di una bionda di Milos Forman, ha lo stesso tipo di freschezza e di energia di un’opera prima. Quando ho iniziato a scrivere sceneggiature, ero più giovane e i personaggi che creavo erano a cavallo fra i venti e i trenta anni. Non ero in grado di lavorare con i giovani attori e la cosa mi terrorizzava. Oggi invece, soprattutto dopo aver lavorato anche con grandi attori americani come Benicio Del Toro in Jimmy P., posso farcela anche se sono consapevole che quello che scrivo, soprattutto le mie battute, sono molto elaborate, molto difficili da recitare per un attore perché deve essere in grado di renderle divertenti e tristi allo stesso tempo. Amo le mie battute ma sono difficili ed ero arrivato al punto di domandarmi se le mie frasi e le mie sceneggiature fossero soltanto per attori esperti così ho pensato che sarei stato orgoglioso della mia scrittura se le nuove generazioni fossero state in grado di interpretarle.

I suoi film possiedono sempre una qualità romanzesca di scrittura. Come si approccia al lavoro sulla sceneggiatura e i dialoghi? Negli anni ha sviluppato un metodo particolare? 

Odio quella parte del lavoro perché c’è solitudine, insicurezza, è una vera tortura. Se di metodo si parla, diciamo che comincio sempre dalle singole scene e molto spesso una scena comincia con una punch-line, qualcosa di brutale, di osceno, bizzarro. Cerco sempre di sfuggire al naturalismo e quando trovo un modo per farlo e raggiungo una verità, che è diversa dal naturalismo, comincio poi a collezionare diverse scene. Per Trois souvenirs de ma jeunesse per esempio, ho iniziato a scrivere il monologo della scena del museo e ho pensato: «Divertente, dovrebbe esserlo anche recitarlo». E subito dopo ho iniziato a scrivere le lettere, pensando di usare la voce di Esther che le legge. Adoro scrivere «da donna», so bene come si scrive «da uomo» ma quando si tratta di immergersi nella psicologia femminile, allora mi diverto veramente, poi sono arrivati il personaggio del caucasico, il nordafricano e solo allora ho cominciato a scrivere l’intera sceneggiatura. La cosa fondamentale è creare dei puri eventi di cinema e farmi sorprendere sempre da ciò che scrivo come accadde per I re e la regina. Ricordo il giorno preciso nel quale ho iniziato a concepire il film, scrivendo la lettera che Maurice Garrel legge alla figlia, Emanuelle Devos, e sono rimasto scioccato. Pensavo fosse qualcosa di proibito e che forse dovevo cancellare quanto scritto ma il giorno dopo ho cambiato idea. Pensavo: «Che cosa è accaduto fra questo padre e questa figlia? Chi è lui? Chi è lei? Lui sta mentendo?». Dunque il mio processo di scrittura è alla ricerca di un senso attraverso le battute, è una scoperta continua dei personaggi.

Nella masterclass che ha tenuto al Festival ha accennato al bisogno di scoprire il cinema attraverso gli occhi delle giovani generazioni…

La mia percezione è meno accurata rispetto agli anni giovanili anche se, ripensando ai miei gusti cinefili di adolescente, non capivo esattamente che cosa fosse il cinema. Con il crescere la cornea si appesantisce e lentamente si distacca quindi i nostri occhi perdono di precisione ed è per questo che ho bisogno della percezione dei giovani. Amo la possibilità di cambiare idea, di farmi influenzare dalle altre persone, di partecipare a queste discussioni che stanno attorno a un film per dargli ancora più vita. Non voglio essere il leader di un dibattito ma semplicemente esserne parte. Quando a trent’anni ho rivisto i film di Truffaut mi sono reso conto che non è mai sceso a compromessi. Prima pensavo che solo Godard non l’avesse mai fatto e per gran parte della mia vita sono stato un grande ammiratore del cinema popolare americano. Ma oggi la situazione è così terribile che c’è stata una grande rivoluzione di sguardo nella mia vita.

A cosa si riferisce?

Molti studenti di cinema francese odiano il nostro cinema, credo che ogni studioso o cinefilo abbia un rapporto conflittuale con quello che è prodotto nel proprio paese. Nel mio caso, è tipicamente francese amare film come Pretty Woman o Alfred Hitchcock ma non deve esserci uno scarto fra ciò che è nobile e ciò che è volgare. Vent’anni fa era ancora una cosa molto «francese», oggi, per la crisi, non è più rilevante. Non abbiamo più spettatori, i giovani non guardano la tv, non comprano dvd, percepisco un panico artistico in tutta Europa e anche in America. Gli americani hanno abbandonato l’idea di essere inventivi, la crisi creativa degli studios è palese e, nonostante gli incassi stratosferici dei blockbuster, sono film che il pubblico non vuole, li vanno a vedere ma non ne hanno bisogno. In Europa invece non ci vogliono ma, nel profondo, hanno bisogno di noi.