Meravigliosa, disgustosa, pigra stronza, ripugnante, stupenda. Una sequela di insulti e complimenti apre il documentario di Kelli Jean Drinkwater, Nothing to Lose, e fa da sfondo all’immagine di una ballerina che danza sul palcoscenico. Una ballerina non «tradizionale», come quelle che siamo abituati a vedere, ma molto grassa, così come gli altri protagonisti della coreografia rappresentata sul palco, che ha lo stesso titolo del film di Drinkwater ed è stata portata sulle scene del Festival di Sydney nel 2015 dalla coreografa e ballerina Kate Champion. «Ero interessata ai corpi «large» da un punto di vista coreografico – spiega Champion alla regista nel film – in che modo si muovono e cosa ci consentono di scoprire?».
Drinkwater, artista e attivista del mondo delle body politics , le «politiche del corpo»– suo è anche Aquaporko!, del 2013 – viene da subito coinvolta nel progetto e ne racconta con il suo documentario il percorso per venire alla luce, dalla ricerca dei ballerini che ne faranno parte alla notte della prima al Festival australiano, passando per il processo creativo in cui emerge il potenziale dei corpi grassi – obliterati dal mondo dell’entertainment – nel raccontare delle storie, «le proprie ma anche quelle degli altri» dice Drinkwater. Gli insulti e le lusinghe che aprono Nothing to Lose – in programma alla decima edizione di Some Prefer Cake, il Festival Lesbico di Bologna iniziato il 21 settembre e in corso fino a domani – sono quelli rivolti ai protagonisti nel corso degli anni, raccolti minuziosamente per un progetto che nasce proprio dalle loro storie, la loro presa di coscienza che incrocia non solo le body politics ma anche il razzismo e la ricerca dell’identità di genere e sessuale.

Come è iniziata la collaborazione con Kate Champion e come è nato il progetto di «Nothing to Lose»?

Kate è una delle coreografe e registe teatrali più stimate di tutta l’Australia, e voleva realizzare un lavoro che si interrogasse sul perché i corpi grassi sono così controversi, specialmente nel mondo della danza. Aveva visto su internet alcune delle mie performance artistiche e mi ha chiesto di partecipare al suo progetto in qualità di collaboratrice. Era pienamente consapevole della necessità di lavorare con un’artista che vive in prima persona l’esperienza di abitare un corpo large. E da regista sapevo che la realizzazione dello show sarebbe stata un’incredibile storia da documentare, così ho cominciato a filmare sin dai primi provini.

Nel documentario molti ballerini spiegano come è iniziato il loro rapporto con le body politics. Qual è invece il suo percorso? 

Quando avevo 19 anni e studiavo alla scuola d’arte mi sono accorta dell’enorme lacuna di immagini che rappresentano corpi come il mio, e quasi nessuno degli esempi che trovavo era positivo o perlomeno neutrale. Così, dato che ero la persona più grossa che conoscessi, ho iniziato a usare me stessa nel mio lavoro. E quella che era cominciata come un’esplorazione visiva mi ha presto portata all’attivismo femminista, del corpo e queer, e ha dato inizio alla lotta per portare queste tematiche al centro della discussione, la motivazione principale di tutto il mio lavoro creativo.

Attraverso il suo focus sulle body politics «Nothing to Lose»incrocia molti altri temi cruciali come l’etnia, il genere e l’identità.

Una delle ragioni principali che mi ha spinta a girare il doc era il desiderio di approfondire quelle conversazioni che il lavoro sullo show ha sollevato fra i membri del cast, e il modo in cui ha avuto un impatto su di loro a livello individuale. Spesso si parla delle persone grasse come se avessero avuto tutte le stesse esperienze: una cosa ridicola – c’è molto poco interesse nel vedere le persone grasse come gli esseri umani pieni di sfumature che siamo in realtà. È anche importante parlare di come siano complesse e intrecciate le nostre idee su noi stessi e di come molti fattori, come il genere, la razza, la cultura, la sessualità abbiano un impatto su ciò che proviamo e su chi siamo.

Gli uomini che partecipano al progetto di «Nothing to Lose» sono pochi…

L’adesione al progetto, a partire da chi ha risposto agli annunci dei provini, è stata in proporzione schiacciante femminile. Una cosa che non mi ha stupita, perché tutti sappiamo quanto sia pervasiva e implacabile la pressione sulle donne affinché si conformino a un ideale fisico. È stata una risposta alla tirannia dei media, dell’industria della bellezza, alla cultura delle diete, le industrie farmacologiche e la gigantesca macchina che tiene le persone costantemente insoddisfatte del loro aspetto. Ma comunque c’erano degli uomini straordinari sia nel cast principale che nell’ensemble, e anche loro erano felici dell’opportunità di occupare uno spazio sul palco. Non sono certa di poter parlare direttamente per gli uomini, ma credo che in fondo tutti noi ci confrontiamo con le body politics e con la necessità di rivendicare il rispetto per noi stessi, che è un’esperienza molto soggettiva. E amare se stessi non è un fatto compiuto che si ottiene un bel giorno come una sorta di nirvana, ma un’esperienza quotidiana e infinita che cambia insieme a noi ed è una pratica più che un risultato.
Kate Champion parla della ricerca di un nuovo «vocabolario» della danza che fosse adatto ai corpi dei ballerini.

Il suo metodo di lavoro è collaborativo, incentrato su una interazione costante con il cast. In Nothing to Lose non le interessa insegnare una coreografia tradizionale, questo negherebbe la ragione stessa dello spettacolo, che è scoprire il potenziale del movimento di un corpo grasso. Abbiamo lavorato insieme per trovare delle provocazioni e dei movimenti sperimentali, che sono stati esplorati durante la fase di sviluppo creativo dello show. E attraverso quel processo i temi più forti e i movimenti più interessanti sono giunti fino allo spettacolo finale.

Nel film osserva che lo show ha dato la prova che i corpi grassi – quasi mai rappresentati nel mondo dello spettacolo – sono in grado di narrare le proprie e altrui storie.

Quello dell’entertainment è un microcosmo della società tutta ed è, ancor più di essa, regolato dalle idee dominanti sull’ «accettabilità» fisica. I corpi grassi di conseguenza sono sempre stati relegati a delle tipologie comiche, del «migliore amico triste» o della figura materna. Sempre che vengano inseriti in uno spettacolo di qualunque tipo, e spesso comunque i ruoli dei grassi vengono interpretati da persone magre con un costume. La situazione migliora negli ambienti artistici underground e queer, ma in generale c’è ancora molta difficoltà da questo punto di vista. Per questo motivo la maggior parte dei miei lavori sono indipendenti: come ogni persona sotto rappresentata ho dovuto creare da sola e autonomamente uno spazio per realizzare quelle storie che mi sarebbe piaciuto vedere. Quindi lavorare a Nothing to Lose con Force Majeure, una compagnia teatrale vincitrice di moltissimi premi, per il palco principale del Festiva di Sydney, è stata una cosa grandiosa. Credo sia essenziale raccontare delle storie con più sfumature sulle persone large, per non cancellare i nostri corpi e prenderci lo spazio che meritiamo. Ma la taglia del corpo di una persona non è l’unico aspetto che la definisce: siamo in grado di raccontare una grande varietà di storie, non solo quelle che vengono dalla nostra esperienza di vita, come viene incoraggiato a fare qualsiasi altro performer.