La capitale dell’Armenia è in questi giorni al centro dell’attenzione delle cancellerie di tutto il mondo, cosa piuttosto insolita da queste parti. Le commemorazioni del centesimo anniversario del genocidio armeno hanno richiamato a Yerevan capi di stato e delegazioni, armeni della diaspora e semplici visitatori, e nel giro di poche settimane moltissimi governi hanno dovuto interrogarsi sull’uso della parola «genocidio» da applicare o meno alla tragedia subita dagli armeni nell’Impero ottomano esattamente un secolo fa. La maggior parte delle opinioni espresse sembravano però determinate più da considerazioni politiche ed economiche, che da una riflessione su una tragedia, quella armena, che potrebbe gettar luce su tante altre catastrofi del presente.

Uno degli spettacoli peggiori è stato offerto proprio dal governo italiano, che ha dimostrato ancora una volta tutti i suoi limiti in politica estera. Eppure, non è la prima volta che l’Armenia e il Caucaso meridionale mettono in difficoltà un governo capace solo di timidi balbettii su un’area strategica prioritaria come questa, da un punto di vista politico ed energetico. Solo l’estate scorsa, infatti, la Farnesina era scivolata sulla questione del Nagorno Karabakh, un conflitto cosiddetto «congelato» che oppone Armenia e Azerbaigian da diversi decenni. In occasione di una visita del presidente azero Aliyev in Italia, una bozza di dichiarazione congiunta – in cui l’Italia esprimeva posizioni molto compiacenti e lontane da quelle dell’Ue – era stata diffusa dalla stampa azera, provocando notevole imbarazzo a Roma. E generando domande piuttosto inquietanti circa la competenza in materia della nostra diplomazia.

A meno di un anno di distanza, è sopraggiunto un nuovo scivolone con le dichiarazioni del sottosegretario Sandro Gozi sul genocidio armeno, parole che risultano in contraddizione, fra l’altro, con la risoluzione in materia votata dalla Camera nel novembre del 2000. Nonostante le smentite piovute da ogni parte, alla fine l’Italia ha deciso ancora una volta di mostrare di che stoffa è fatta, inviando alla commemorazione farsa di Gallipoli, che ormai neppure i turchi prendono troppo sul serio, una delegazione di maggior prestigio (il sottosegretario alla difesa Domenico Rossi, quindi un rappresentante del governo) rispetto ai rappresentanti di Camera e Senato, Casini e Cicchitto, giunti a Yerevan in queste ore.

Fra i leader convenuti in Armenia per prestare omaggio alle vittime del genocidio armeno – perché di ciò si tratta, anche se pare non siano in molti a ricordarlo – si segnala la presenza di François Hollande e di Vladimir Putin. Anche in questo caso, c’è poco da stare allegri. Se il primo pare venuto a Yerevan solo per compiacere la comunità armena francese – salvo poi volare subito a Baku, per rassicurare l’arcinemico dell’Armenia Ilham Aliyev della sua amicizia – la presenza del secondo ha tutta l’aria del mastino venuto a rimarcare il suo territorio. Perché quella dell’indipendenza dell’Armenia da Mosca è una favola a cui ormai non sembra credere più nessuno.

Con Putin anche Ankara fa orecchie da mercante e non pare intenzionata a esprimere una reazione diplomatica dura come quella che ha avuto nei giorni scorsi nei confronti della Santa Sede e dell’Austria che hanno riconosciuto il genocidio. Il sito del quotidiano Hurriyet riporta come il governo turco stia evitando al momento reazioni brusche nei confronti di Parigi e Mosca, e cita il ministro turco dell’Energia, Taner Yildiz, che ha escluso conseguenze nei rapporti con la Russia. La presenza in Armenia di Putin, secondo il ministro, «non comprometterà i negoziati per i progetti comuni» con la Russia, in particolare nel settore energetico.

Anche il presidente turco Recep Tayyip Erdogan è tornato a parlare di quello che nell’ottica turca non fu un genocidio, usando parole più concilianti e rispettose di quelle usate nei giorni scorsi. In un messaggio letto durante una cerimonia religiosa che si è svolta presso la sede del patriarcato armeno di Istanbul, la prima commemorazione di questo genere che si sia mai svolta nella città, ha affermato: «Conosciamo i tristi eventi che la comunità armena ha subito in passato e condivido con sincerità il suo dolore». Piccoli gesti da non sopravvalutare forse, dopo la tempesta dei giorni scorsi – determinata fra l’altro da un’imminente elezione in Turchia, ai primi di giugno – ma che testimoniano come il dialogo fra Turchia e Armenia sia possibile.