In occasione del Salone dell’archeologia e del turismo culturale (TourismA) che si svolgerà a Firenze dal 17 al 19 dicembre, verrà presentata una panoramica delle ricerche della missione archeologica italiana in Armenia. L’evento s’inserisce nel convegno Iter-Archeologia Patrimonio e Ricerca italiana all’estero, dedicato alla memoria del suo ideatore, lo storico dell’arte e funzionario del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale Ettore Janulardo, che ha contribuito significativamente allo sviluppo dell’archeologia italiana oltre confine. A esporre i risultati sarà Roberto Dan, affiliato all’Università degli studi della Tuscia e all’Associazione internazionale di studi sul Mediterraneo e sull’Oriente (Ismeo). «I progetti portati avanti dall’Istituto di archeologia ed etnografia dell’Accademia delle scienze di Armenia e dall’Ismeo con il cofinanziamento del Maeci – spiega Dan – riguardano le regioni del Kotayk e del Vayots Dzor. Attraverso ricognizioni estensive, scavi puntuali o su vasta scala – aggiunge il ricercatore – miriamo alla realizzazione delle prime carte archeologiche».

La missione in Kotayk, attiva dal 2013 e co-diretta da Artur Petrosyan, ha portato all’identificazione e allo studio di 227 siti, perlopiù inediti. Quella in Vayots Dzor, condotta assieme a Boris Gasparyan e allo stesso Petrosyan, ha invece preso avvio nel 2016. In quest’ultima area sono stati indagati e documentati 80 insediamenti, tra i quali la celebre grotta calcolitica di Areni-1, che ha rivelato le tracce di quella che viene considerata, attualmente, la più antica produzione di vino del mondo.

L’Armenia è un paese con una storia antica, che ha intersecato quella dell’Occidente. Eppure sembra essere un paese invisibile per molti archeologi. Perché?
Spesso, il Caucaso meridionale viene visto come un «ripiego», qualora sia impossibile operare in altri paesi orientali a causa di conflitti armati o instabilità politica. A ciò si aggiunga il pregiudizio secondo il quale le regioni caucasiche, Armenia inclusa, siano periferie storicamente influenzate da aree ritenute più civilizzate, come la Mesopotamia. Le testimonianze archeologiche evidenziano, al contrario, scambi culturali bidirezionali. In quest’ottica, le nostre attività di ricerca sono indirizzate allo studio dei processi di formazione delle società complesse, con particolare attenzione agli anni nei quali il territorio della moderna Armenia divenne una componente fondamentale dello stato di Urartu, uno degli attori più importanti della vita politica del Vicino Oriente antico nel I millennio a.C.

Quali ricadute hanno sulla popolazione locale le vostre ricerche?
Il nostro compito non si esaurisce con la raccolta dei dati archeologici necessari alla ricostruzione storica ma siamo impegnati anche nella formazione dei giovani archeologi e degli operai che partecipano alla missione. Inoltre, organizziamo conferenze e corsi rivolti al grande pubblico, e le scolaresche delle aree limitrofe ai nostri scavi vengono costantemente invitate a farci visita. Nel 2019, sono stato insignito con Artur Petrosyan, a Parigi, dell’Europa Nostra Award per il progetto che ha condotto all’identificazione e allo scavo del sito di Solak-1/Varsak, insediamento di 32 ettari fra i più importanti dell’Età del Ferro. Nel premio è incluso il progetto di valorizzazione del sito e dell’ambiente circostante, ampiamente incontaminato, che vedrà nei prossimi anni la realizzazione del primo parco eco-archeologico regionale. Una sfida che porterà indubbi benefici a tutte le comunità locali.