Tra maggio e giugno anche l’Armenia, dopo Bielorussia e Kazakhstan, dovrebbe aderire all’Unione eurasiatica, l’area politico-economica patrocinata da Mosca nell’arco post-sovietico. Entro il 2015 dovrebbe diventare pienamente operativa. L’obiettivo di Putin è allargarne il perimetro, mano a mano, agli altri paesi della regione. Il presidente russo vorrebbe che anche Kiev rientrasse in questo disegno che incrocia esigenze di sviluppo economico e di potenza. Dopotutto è anche questo uno dei fattori a monte della crisi in Ucraina. Che, logicamente, ha spinto gli stati eurasiatici a prendere posizione.
La tendenza è quella all’allineamento con Mosca. Ma emergono anche preoccupazioni. La politica assertiva di Mosca a Kiev e dintorni alimenta a Minsk, Astana, Erevan e nelle altre capitali della regione il timore che Putin voglia non soltanto dettare la linea dell’Unione eurasiatica, ma esercitare una pretesa egemonica molto marcata.
La Bielorussia è una cartina di tornasole, in questo senso. Un’integrazione forte con la Russia, sia in termini energetici che commerciali, così come sotto il profilo militare, è considerata dall’uomo forte di Minsk, Aleksandr Lukashenko, come l’argine più possente nei confronti dell’area europea e atlantica, verso le quali la Bielorussia è esposta. Ma è proprio in virtù di questa esposizione che Lukashenko può ciondolare su due fronti, permettersi sotto certi aspetti di «ricattare» Mosca e contenerne gli appetiti. La posizione assunta da Lukashenko nel corso della crisi ucraina ha rispettato questo copione. Minsk ha votato contro la risoluzione sull’integrità territoriale ucraina, discussa all’Onu a fine marzo. In altre parole ha avallato la politica russa in Crimea. Al tempo stesso, però, si oppone all’ipotesi di federalizzazione dell’Ucraina, suggerita da Mosca. Agli occhi di Lukashenko potrebbe diventare il pretesto con cui spaccare formalmente in due il paese lungo l’asse ovest/est, piuttosto che tenerlo insieme. E come nota qualche analista, un’Ucraina capace di restare unita (esclusa logicamente la Crimea) e in perenne tensione tra due poli, quello europeo e quello russo, torna utile a Lukashenko sia per tenere a distanza l’orso russo, sia per aprire di tanto in tanto canali di dialogo con gli occidentali.
È la politica che l’Armenia persegue dal 1991, quando implose l’Urss. Con la differenza che gli ammiccamenti agli occidentali sono stati sempre più espliciti. Ma adesso gli equilibrismi sono venuti meno. Nei mesi scorsi l’Ue ha proposto all’Armenia di siglare gli Accordi di associazione. Erevan, in sostanza, è stata chiamata a decidere: più Europa e meno Russia, meno Europa e più Russia. La scelta, calcolatrice alla mano e piantina davanti agli occhi, è caduta sulla seconda opzione. Ma il rischio che ne deriva è che Mosca possa esercitare un’ipoteca. Il Kazakhstan, che invece si è astenuto sulla risoluzione dell’Onu sull’Ucraina, ha qualche angoscia, di matrice energetica. Lo spettro delle sanzioni nei confronti della Russia potrebbe danneggiare l’industria petrolifera locale. L’anno scorso la repubblica centro-asiatica, che detiene il 3% delle riserve mondiali, ha infatti esportato un terzo della sua produzione, pari a 82 milioni di tonnellate, attraverso le pipeline che corrono attraverso il territorio della Russia. Che come riportato da Radio Free Europe sta cercando di blandire e mettere paletti, proprio perché teme che i paesi dell’area si facciano condizionare dalle vicende ucraine. Ultimamente Mosca ha intensificato il flusso degli aiuti economici, infrastrutturali e umanitari, promosso la conoscenza del russo, favorito le pratiche di cittadinanza e realizzato qualche acquisizione di peso a livello energetico.