«Rileggendo David Copperfield mi ha sorpreso quanto fosse visivamente comico, in modo proprio cinematografico. Ad esempio quando David si ubriaca e Londra gli turbina intorno, o cerca di salire le scale e non ci riesce perché gli sembrano piatte». Armando Iannucci, regista (e sceneggiatore insieme a Simon Blackwell) della Vita straordinaria di David Copperfield, tratto dal romanzo di Dickens, sottolinea lo straordinario talento visivo dello scrittore inglese per raccontare il lavoro di adattamento del testo scritto.

UNA «TRADUZIONE» per il grande schermo per cui dice di aver pensato spesso anche a Chaplin, alle gag del suo vagabondo che entrano nel linguaggio fisico del David Copperfield di Iannucci, interpretato da Dev Patel in un cast multietnico che se poco ha a che fare con una riproduzione filologica della Londra vittoriana raccontata nelle pagine di Dickens è fedele, osserva il regista, all’attualità delle sue storie.

«Ho sempre pensato che Dickens fosse estremamente sensibile ai problemi del suo tempo, per questo volevo che il film tenesse ’un piede’ negli anni Quaranta dell’Ottocento ma riflettesse anche chi siamo noi, la società di oggi». In cui le somiglianze con la Londra di allora non mancano, come la convivenza «fianco a fianco nelle nostre città di estrema ricchezza e profonda povertà», o l’esistenza di persone «che lottano per trovare la propria identità, o che la cambiano per entrare a far parte di un gruppo sociale, per sentirsi accettati».

COME DAVID COPPERFIELD appunto, nato in una famiglia benestante e gettato nella povertà più nera dal secondo marito della madre, che lo manda ancora bambino a lavorare in una fabbrica di lucido per scarpe della capitale, dove gli offre alloggio l’indimenticabile signor Micawber (Peter Capaldi), inseguito dai creditori in ogni strada della città. E poi il capovolgimento delle sue fortune grazie alla ricca zia Betsey Trotwood (Tilda Swinton), che lo accoglie in casa sua – insieme al signor Dick (uno splendido Hugh Laurie), ossessionato dalla decollazione di Carlo I – e finanzia i suoi studi. E infine la sfida per trovare il proprio posto nel mondo resistendo all’omologazione con le meschinità della buona società.

Un quadro ampissimo di luoghi e personaggi, come nota Laurie: «Dickens è stato un esploratore come nessuno prima di lui e ben pochi dopo, non solo da un punto di vista sociale ma anche geografico. Era come un reporter, l’ampiezza della sua visione era vastissima. Leggendo un romanzo di Jane Austen, se ci sono delle persone che giocano a carte in un salone non conosci il nome di chi nel frattempo cucina i pasti, o dello stalliere che sistema la sella del cavallo. Con Dickens invece sì».

NEL SUO FILM, Iannucci replica questa tavolozza sconfinata e affollata di persone prediligendo il lato umoristico di Dickens, le idiosincrasie comiche e perfino slapstick dei suoi personaggi, a discapito del lato oscuro del racconto, della Londra affamata e cenciosa su cui passano indifferenti le carrozze dell’alta società e su cui invece l’occhio di Dickens è sempre stato puntato con attenzione anche quando – come il suo David – ha raggiunto fama e benessere.

L’immagine lugubre, asfissiante e spaventosa della fabbrica di lucido da scarpe vista attraverso gli occhi di un bambino ha i contorni più vividi sulla carta stampata rispetto alle immagini di Iannucci, che pur volendo riportare al presente i temi sociali sollevati dallo scrittore – e omaggiandolo in controluce nella figura di David – restringe così proprio l’ampiezza del suo anelito di giustizia.

Uscito nel Regno Unito l’anno scorso, La vita di straordinaria di David Copperfield (in sala da venerdì), ha fatto in tempo «in patria» a evitare il lockdown e la crisi dei cinema, rispetto alla quale Iannucci dice di essere «preoccupato, specialmente per le sale più piccole e indipendenti». Ma il suo film, afferma, è pensato per il grande schermo: «È una scelta molto facile in questo momento prendere i soldi da società come Amazon o Netflix, ma per me fare un film, e specialmente una commedia, significa pensare al cinema, all’esperienza irrinunciabile di ridere tutti insieme davanti al grande schermo».