Lo spirito calvinista che aveva consentito la nascita del capitalismo, grazie alla vita ascetica orientata al guadagno, all’applicazione metodica del calcolo e alla razionalizzazione dell’intera esistenza, non era più necessario, secondo Max Weber, nell’epoca del capitalismo trionfante. Ormai la «macchina», messa in moto da quell’originario spirito etico, era in grado di muoversi da sola.

Con la celebre immagine della «gabbia d’acciaio» Weber ne aveva indicato il destino burocratizzato e meccanizzato. Ma se questa conclusione poteva valere per il capitalismo industriale tra Ottocento e Novecento non sembra più funzionare per il capitalismo finanziario che domina il nostro mondo contemporaneo. Secondo l’ultimo libro di Arjun Appadurai, Scommettere sulle parole Il cedimento del linguaggio nell’epoca della finanza derivata (Cortina, pp. 230, euro 21,00) il calcolo e la previsione metodica di un risultato sono fondamentalmente estranei al trader contemporaneo che scommette sui derivati e sui numerosi strumenti speculativi del mercato finanziario. Quel mercato è caratterizzato da un’incertezza così radicale da rendere inutile qualunque calcolo.

Sembra qui ripresentarsi, pur in un contesto radicalmente diverso, quel senso di incertezza assoluta che circondava il credente calvinista intorno al proprio destino di salvezza, e di fronte al quale l’unica risposta poteva consistere in una scommessa: agire come se si fosse stati «eletti» da Dio e dedicare la propria esistenza all’accumulazione di ricchezza, in modo tale da giungere il più vicino possibile a una vita consacrata alla gloria divina. Ma se l’etica del calcolo era il tentativo di ricreare una certezza mondana di contro all’incertezza extramondana sulla propria salvezza, l’attuale volatilità dei mercati finanziari ha un bisogno altrettanto forte di un’etica in grado di creare certezza, un’etica che però non potrà più essere quella della metodicità e del calcolo.

Weber, secondo Appadurai, avrebbe dunque sottovalutato lo sfondo «spirituale» necessario al mantenimento del capitalismo: «Non possiamo più permetterci di concepire il capitalismo come una macchina che dopo un’iniziale fase etica si limita ad autoperpetuarsi». Interviene qui lo sguardo dell’antropologo, che scopre nelle pratiche del trading, nei suoi rituali, nelle «effervescenze collettive» che lo caratterizzano, quegli eventi «spirituali» in grado di creare certezze a partire da un’incertezza. Non c’è nulla di calcolato nelle decisioni dei traders: c’è solo la fiducia nelle proprie qualità di agenti di successo, la «fede» nelle proprie convinzioni contro il parere della maggioranza, la scommessa sulla propria «elezione». La decisione non solo crea l’evento ma determina retrospettivamente la certezza. Il capitalismo nato dal superamento della magia e sullo spirito del calcolo, nella sua fase finanziaria si rifonda sul carisma e sullo spirito magico.
Ma qui nascono i problemi della fase attuale che Appadurai mette bene in luce. Il mercato finanziario è fatto di contratti, in cui qualcuno promette la restituzione di una certa somma a qualcun altro a fronte della corresponsione di un certo bene. Un prodotto derivato consiste poi in una promessa che fa leva su una promessa precedente, moltiplicandosi all’infinito. L’intera concatenazione si basa su una fiducia universale che non può fondarsi solo sulla coercizione o sul timore delle conseguenze. Ma molti dei derivati tossici che hanno determinato il crollo finanziario del 2007-2008 (e che sono ancora in circolazione) sono contratti costruiti sul presupposto che quelle promesse non vengano mantenute. Insomma quei trader scommettevano (e continuano a scommettere) sul fallimento del sistema delle promesse. Come può sopravvivere alla lunga un sistema finanziario che scommette contro il suo stesso presupposto di fondo?