«Un’opera che si sviluppa e cresce per tutta la sua durata dimostrando uno sguardo consapevole, efficace ma mai invadente. Nella sua coralità indisciplinata, Arimo raccoglie diverse voci riuscendo a creare dei momenti di racconto personale e sociale estremamente potenti». Con questa motivazione, la giuria del concorso Prospettive del festival Filmmaker di Milano ha premiato come miglior film il breve lungometraggio di Nicolò Braggion e Jacopo Mutti girato in una comunità per minori alla periferia del capoluogo lombardo.

Il titolo, Arimo, si riferisce sia al nome della struttura che accoglie gli adolescenti sia a un modo di dire: «Da bambini, per interrompere il gioco perché qualcuno si era fatto male, si diceva “arimo!”, che significa tregua, time out», ricordano i due cineasti, entrambi nati nel 1990 e che hanno iniziato la loro collaborazione artistica negli anni di studio allo IED di Milano (la scuola di design, moda, arti visive e comunicazione) per poi proseguirla sia come registi di prodotti su commissione sia interessandosi e appassionandosi sempre più al documentario.

Risultato di questo percorso è Arimo, loro primo lungometraggio. Alla base di Arimo c’è un progetto di coinvolgimento sociale, un laboratorio di cinema durato un anno tenuto da Braggion e Mutti e finalizzato a girare un film con i ragazzi del centro protagonisti come attori e maestranze.

UN MODO per renderli partecipi di un percorso di integrazione, di apprendimento e di trasformazione nella pratica di quanto imparato. Studio e divertimento perché nel momento di preparare il loro film, truccarsi, fare le prove, recitare, i ragazzi hanno fatto sul serio ma anche scherzato, hanno portato alla luce una parte dei loro caratteri e modi di comunicare differenti all’interno di quello che è comunque uno spazio di reclusione dettato da regole precise. Ragazzi finiti lì perché le famiglie non si sono curate di loro, perché si sono macchiati di reati, perché sono stranieri non accompagnati.

Tante storie delle quali si viene a conoscenza. All’inizio si presentano, già come se fossero attori fanno i padroni di casa che invitano chi li sta filmando, e chi sta guardando, a seguirli affinché visitino e scoprano i vari ambienti della struttura. Sanno di essere protagonisti tanto del documentario quanto del loro piccolo film amatoriale di finzione che stanno facendo crescere discutendone insieme e con gli autori.

MENTRE PRENDONO spazio i rapporti fra loro, con gli educatori, i momenti di svago al fiume e nei boschi. Uno di loro scrive e canta brani rap. Braggion e Mutti costruiscono un film corale, lieve e problematico, dove si rileva, e rivela, l’empatia tra campo e fuori campo, tra loro dietro la videocamera e i ragazzi che ostentano la loro presenza davanti all’obiettivo.

Per i due cineasti Arimo è un film «quasi teatrale, sulla solitudine di crescere, con singoli personaggi, miti, sfide, tragedie e quel desiderio di immortalità che è impossibile non sentire da ragazzi». Una sfida riuscita.