Invece di scrivere, i pittori dovrebbero piuttosto dipingere». Così esordisce Avigdor Arikha, pittore, nella premessa alla sua antologia di scritti intitolata La pittura e lo sguardo Scritti sull’arte (Neri Pozza, pp. 414, euro 38,00, traduzione e cura di Monica Ferrando), uscita originariamente nel 1991 e poi nuovamente in versione ampliata nel 2011, subito dopo la morte dell’autore.
Nato nel 1929 da genitori ebrei di lingua tedesca a Radauti, nella regione rumena della Bukovina, Arikha cresce a Czernowitz, allora Urss e oggi Ucraina. Nel 1941 viene deportato con la famiglia e nonostante la fuga costata la vita al padre finisce internato nel campo di Mogilev Podolsky. Scampato al lager, nel 1944 emigra in Palestina, dove fino al 1948 vive nel kibbutz Ma’ale Hahamisha; dal 1946 frequenta la scuola d’arte Bezalel, a Gerusalemme, e nel 1949 si trasferisce quindi a Parigi per studiare all’École des Beaux-Arts e alla Sorbona. Al 1956 risale l’inizio di una duratura amicizia con Samuel Beckett. Arikha raggiunge la notorietà come artista nei primissimi anni sessanta, ma già nel 1965, folgorato dalla Resurrezione di Lazzaro di Caravaggio in una mostra temporanea al Louvre, sprofonda in una crisi di rigetto per l’astrattismo che allora caratterizzava il suo lavoro. Riprenderà a dipingere solo nel 1973, ritraendo soggetti dal vero e affermandosi come pittore di figurazione.
Dal 1965 al 2009
Il volume riunisce in ordine cronologico trentasei testi che vanno dal 1965 al 2009, scritti per varie occasioni: articoli di riviste, contributi per cataloghi di mostre, conferenze, recensioni di libri e persino una relazione per il Ministero della Cultura francese. I testi privilegiano temi legati ai protagonisti della storia dell’arte e soprattutto della pittura: Ingres, Poussin, David, Mantegna, Velázquez, ecc. (rare le menzioni a pittori figurativi della sua generazione). Nonostante il numero e la varietà dei temi, e la differente natura ed età dei brani raccolti, il libro si mantiene coerente e viaggia saldo su un binario concettuale che evidentemente nel suo quarantennale sviluppo non ha fatto che consolidarsi. Arikha intreccia volentieri storia, critica, teoria, analisi stilistica e iconografica (notevole al riguardo è il saggio sul Ratto delle Sabine di Poussin), e tratta i suoi argomenti con grande attenzione per la dimensione materiale dell’opera, predicando la necessità – tuttora non sempre chiara agli addetti – di approfondire l’indagine degli aspetti tecnici: «Che cos’è il “rosa salmone”? Che cos’è il “verde foresta”? Come è possibile che uno storico dell’arte non riesca a identificare un tono o un colore con giustezza e a designarlo col suo proprio nome?».
Più in generale Arikha fa costante riferimento a un’antinomia basilare di emozione e cognizione, prendendo apertamente partito per il lato emotivo della pittura, una disciplina per sua essenza astorica la quale oltretutto non si insegna. La pittura è restituzione del dato visibile, che trascende la significazione dell’immagine (cioè, l’informazione mediata simbolicamente) e rimane ineffabile: «Le parole, spesso, restano indietro, appartengono ancora al passato e non riescono a seguire la pittura nel suo silenzio». Al contrario «il disegno, la pittura e la scultura sono immediati. Quanto trasmettono non appartiene all’ambito della informazione, bensì della sensazione».
Contro il nozionismo sterile degli eruditi, la cosa importante nell’opera d’arte è come l’azione in sé insignificante della mano dell’individuo talentuoso riesca a trasmettere l’emozione della pura esperienza visiva. Questa indefinibile «potenza qualitativa» si manifesta in uno stile individuale, che scaturendo dalla contingenza non potrà mai dipendere da una teoria o da una dottrina, né dall’intenzione. In arte non esiste premeditazione. «Lo stile è una frequenza. Sta all’artista come il timbro della voce sta all’uomo».
Per Arikha la pittura è una lotta solitaria verso la scoperta di se stessi – non a caso l’autoritratto è un tema ricorrente nella sua produzione. Ciò non comporta la fine o il disconoscimento della tradizione, la cui continuità è assicurata dal confronto intergenerazionale tra i grandi maestri, i «giganti» che sono divenuti tali perché hanno saputo «salire sulle spalle» dei giganti che li hanno precorsi. Mentre artisti come Poussin, David o Degas hanno vissuto con naturalezza il rapporto con la tradizione, i loro epigoni si sono limitati a convertire le intuizioni dei maestri in dogmi; ecco perché Poussin, ad esempio, è classico ma non classicista.
Dunque dipingere è una pratica solipsistica riservata a pochi eletti e in effetti alla moltitudine dei mediocri non resta che imitare i maestri, tentando di decifrarli. Tuttavia, nel momento in cui il gusto individuale viene codificato in un canone, allora scade in uno «stile collettivo», un odioso regime ideologico che opprime l’arte attraverso inibizioni e norme, tacite o esplicite. «Non è raro imbattersi, nella storia dell’arte, nel fenomeno della visione di un maestro contraffatta dai suoi imitatori: questo fu per esempio il caso di Caravaggio a opera dei “caravaggisti”». Questo accade perché l’imitazione viene interpretata come un processo astrattivo, che rinuncia al «vero» e punta alla ricerca di ideali. La tirannia dello stile collettivo si propaga attraverso le mode, fenomeni effimeri che si susseguono divorandosi tra loro, quando invece la massima aspirazione dell’artista dovrebbe essere la permanenza, inclusa quella fisica dell’opera.
Mode e scetticismo
Avanzando nella serie cronologica dei testi si avverte, sempre più acuta con il passare degli anni, l’insofferenza di Arikha per i cambiamenti che nel Novecento hanno rivoluzionato il campo artistico, investendo i concetti stessi di medium e operatività. Così la moda è omologazione delle differenze, assimilazione della pluralità a un unico paradigma, e l’insorgenza nel ventesimo secolo di tante mode non è che il sintomo di uno scetticismo «in una dottrina normativa unica». L’ossessione dell’avanguardia per il nuovo, la sua insistenza nell’autoproclamarsi moderna, ne ha fatto l’agente storico di «un egualitarismo sociale senza remore, ma esteticamente elitario», in cui chiunque ne avesse voglia può essere riconosciuto «artista» a condizione di accettare le regole «di quella dimensione che consente, d’ora in poi, di attribuire a qualsiasi cosa, non importa di che si tratti, la qualifica di “arte”». Insomma, l’avanguardia è un’impostura, Warhol è un cartellonista mancato e qualunque disegno di Dürer è più «democratico» di un ready-made di Duchamp, il quale ha colpevolmente perso la «mano» per fare della facile ironia.
Complici in questo perverso sistema dottrinario di ottundimento delle coscienze sono gli storici e i critici (che, d’altronde, «sanno» ma non «sentono» e quindi in fondo non capiscono) nelle vesti di «funzionari»: «ad esempio, i funzionari del dogma che dirigono Documenta di Kassel. Sono queste figure istituzionali a dirigere l’arte oggi, a imporre il loro diktat, facendo il verso (senza saperlo) al NSDAP».
Arikha è interessante quando racconta la storia della sanguigna, o discute del valore dei margini nel quadro, oppure condensa in poche pagine la carriera di Rubens. Purtroppo lo è molto meno quando presenta le proprie idiosincrasie personali sulla scorta di una fumosa quanto trita mistica del genio, e celebra con suggestioni zen il miracolo della creazione dell’opera quale atto di immediato e spontaneo accesso al «vero», concetto assai meno laico di quanto Arikha stesso vorrebbe. L’arte, dice, è un «soffio» e «di un soffio cosa si può dire?». Apparentemente, anche troppo