Seppur distante migliaia di chilometri, Yasser Arafat finì risucchiato ugualmente dall’enorme nuvola di polvere e veleni che avvolgeva le macerie delle Torri Gemelle dopo l’11 Settembre.

La seconda Intifada palestinese era cominciata a Gerusalemme un anno prima dell’attacco di Al Qaeda e capo del governo di Israele era Ariel Sharon, colui che l’aveva innescata con la sua provocatoria «passeggiata» sulla Spianata delle moschee. Sharon che aveva combattuto con ogni mezzo il leader palestinese per gran parte della sua esistenza e che nel 1982 non aveva esitato a invadere il Libano pur di cacciare via l’Olp dal paese dei cedri, ebbe una intuizione: spostare la questione palestinese dal tavolo del conflitto territoriale e coloniale su cui giaceva da decenni a quello della lotta globale al terrorismo islamico che il presidente Usa George W. Bush aveva proclamato poche ore dopo lo schianto degli aerei su New York e il Pentagono.

«Assassino» e «Bugiardo patologico» erano i termini più comuni con i quali il leader della destra israeliana si era riferito a Yasser Arafat in quel primo anno di Intifada. Ma due giorni dopo l’11 settembre, durante una conversazione con il segretario di Stato Usa, Colin Powell, pronunciò termini nuovi rimasti scolpiti nella pietra. «Ognuno ha il suo Bin Laden. Arafat è il nostro Bin Laden». Nel lanciare attacchi contro Israele, Arafat ha seguito «l’ideologia» di Bin Laden aggiunse in seguito un portavoce del primo ministro.

Arafat, musulmano credente ma prodotto a tutti gli effetti del nazionalismo laico arabo e, per questo, bersaglio storico degli islamisti più radicali, fu scaraventato nel calderone del Jihad globale. Ariel Sharon fece svanire davanti agli occhi del mondo occidentale scosso e disorientato dall’attacco alle Torri Gemelle, l’immagine di Arafat leader di una causa nazionale sostenuta da tanti nel mondo e quella del premio Nobel della pace e firmatario otto anni prima degli Accordi di Oslo con Israele.

La lotta dei palestinesi a causa anche alle parole del premier israeliano, per un buon numero di cittadini europei e americani non fu più associata all’aspirazione di uno Stato indipendente e alla fine dell’occupazione militare di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. Fu vista piuttosto come parte di una strategia jihadista globale, guidata da Osama bin Laden e Al Qaeda, volta a prendere di mira lo Stato di Israele e a distruggere l’Occidente e i suoi valori.

A rafforzare questa teoria contribuivano gli attentati suicidi compiuti da militanti di Hamas e altre organizzazioni a Gerusalemme e in varie città israeliane. Mentre nei media occidentali passavano in secondo piano o venivano descritte come «lotta al terrorismo islamico» le devastanti incursioni militari israeliane culminate nella primavera del 2002 nella rioccupazione delle città autonome in Cisgiordania («Operazione Muraglia di difesa») costata la vita a centinaia di palestinesi molti dei quali civili.

Yasser Arafat sarebbe morto da lì a poco, nel novembre del 2004, ucciso da una misteriosa malattia del sangue mai accertata in via definitiva dopo essere rimasto di fatto prigioniero, per quasi quattro anni, nella Muqata, il suo quartier generale a Ramallah.

La demonizzazione dell’avversario e la sua trasfigurazione in pericoloso terrorista islamico concepita da Ariel Sharon, fu presto adottata anche da George W. Bush e dal premier britannico Tony Blair. E divenne un pilastro della strategia che avrebbe portato meno di due anni dopo l’11 Settembre all’invasione anglo-statunitense dell’Iraq.

Saddam Hussein negli anni ‘80 era stato un alleato fondamentale degli Usa contro l’Iran khomeinista. Poi cambiò tutto. Fu inserito nella lista dei «nemici» dopo l’occupazione del Kuwait e punito con la prima guerra del Golfo (1991) e anni di sanzioni economiche asfissianti contro la popolazione irachena. Infine, dopo l’attacco alle Torri Gemelle divenne un «alleato di Osama bin Laden» e un protettore di Al Qaeda.

Una tesi lontana anni luce dalla realtà e priva di prove, come sarebbe venuto fuori dopo l’eliminazione del dittatore iracheno, ma che Bush e il suo entourage popolato di neocons bramosi di guerra usarono assieme a un altro clamoroso falso, le «armi di distruzione di massa prodotte e nascoste da Saddam», per giustificare l’attacco militare al regime di Baghdad.

L’acquisto mai avvenuto da parte dell’Iraq di 500 tonnellate di uranio in Niger è solo uno dei pezzi del mosaico di falsità allestito da Bush e Blair per giustificare una guerra dalle conseguenze devastanti per i civili iracheni e che avrebbe consentito proprio ad Al Qaeda di radicarsi in Mesopotamia. Intanto, per venti anni è regnato il silenzio sulle responsabilità concrete dell’Arabia saudita negli attacchi dell’11 settembre.

Dieci anni dopo il crollo della Torri Gemelle, con l’inizio del conflitto in Siria, si è materializzato un fenomeno singolare ma non sorprendente se si tiene conto dell’ambiguità che gli Usa e i suoi alleati mantengono verso il «terrorismo islamico».

Al Qaeda da nemica dell’Occidente sarebbe stata considerata una formazione di ribelli, di combattenti per la libertà, dagli Usa e alcuni paesi arabi perché schierata contro Bashar Assad. Jabhat al Nusra, il ramo siriano dell’organizzazione, per anni ha goduto di appoggi indiretti (e non solo) da parte dell’Occidente. E lo stesso è avvenuto per altre formazioni jihadiste schierate contro Damasco.

Senza dimenticare i contatti avuti con comandanti di gruppi jihadisti siriani dal senatore John McCain, candidato alle presidenziali del 2008 contro BaraCk Obama.