Tra i tanti eterni ritorni al mondo classico che la cultura europea sembra destinata a sperimentare ciclicamente, uno dei più irruenti fu quello che si consumò in Russia all’inizio del Novecento. Istigati dalla lettura di Nietzsche, artisti e poeti si volsero al mito greco persuasi di intravedere nelle vicende di eroi, dei e semidei un sostrato cruciale per definire la loro identità. Come osservò Maksimilian Volosin sulle pagine della rivista «Apollon», l’inquieta sensibilità modernista si era spinta a esplorare l’immaginario arcaico anzitutto nella speranza di trovarvi «qualcosa di inconsueto, audace e segretamente affine a sé». E, a forza di riflettersi nello specchio dell’ellenismo, i «barbari» russi rimasti estranei all’umanesimo quattrocentesco finirono per riconoscervi il proprio volto: non l’imperturbabile sembiante di Apollo, ma piuttosto la fisionomia stravolta di una menade in preda all’estasi.

Nemmeno Marina Cvetaeva rimase estranea a quel revival ellenico. Adolescente ribelle, mal sopportava il padre, insigne archeologo, e soprattutto la sua ingombrante «creatura» – il museo di belle arti di Mosca da lui fondato che consisteva più che altro in un immenso deposito di calchi in gesso di statue.

In cerca del dionisiaco
Quest’insofferenza nei confronti di una visione filologicamente corretta ma «polverosa» dell’antichità spingerà la giovane negli anni Dieci a frequentare intellettuali – fra i quali Vjaceslav Ivanov o il poeta Ellis – che si sforzavano di riportare in auge l’elemento dionisiaco, contaminandolo con altri demoni più moderni. In particolare Cvetaeva strinse amicizia con Volosin, che nella sua dacia di Koktebel’ in Crimea (l’antica Cimmeria, meta degli Argonauti) organizzava mascherate en plein air abbigliando i suoi ospiti con pepli e chitoni.

Su questo sfondo sembra naturale la tendenza della poetessa a cooptare le ombre di Fedra, Afrodite, Teseo, Psiche, Orfeo e Arianna nel suo personalissimo pantheon lirico, dove la forza primigenia del mito innesca meccanismi di autoidentificazione e, viceversa, l’esperienza vissuta viene trasfigurata in parabola atemporale.

«Le mie fonti sono in me: sono io stessa», scriveva nel 1933 a Jurij Ivask, enfatizzando il carattere «ingenuo» della sua rilettura e precisava di basarsi su un semplice manuale tedesco per bambini, Le più belle leggende della classicità di Gustav Schwab.

Se questa pretesa è esagerata e rientra in un gusto tutto cvetaeviano per il paradosso, d’altronde le tragedie su soggetto greco composte negli anni Venti dimostrano fino a che punto l’autrice si fosse creativamente impossessata dell’epos antico, trasformandolo in componente irrinunciabile della sua percezione del mondo, al di là di qualsiasi moda o diatriba intellettuale. Primo tassello di una progettata trilogia dal titolo L’ira di Afrodite, la tragedia in cinque quadri Arianna, terminata nel 1924 a Praga, evidenzia la volontà di Cvetaeva di resuscitare in versi russi l’essenza del teatro greco nell’unico modo a suo parere possibile: affidandosi alla funzione poietica dei fonemi, indispensabile affinché suono e ritmo si facciano parola, ossia mythos. «Tutto il mio scrivere è un continuo prestare orecchio. Come se fin dall’inizio mi fosse stata data tutta la poesia».

La bella traduzione di Arianna di Luisa De Nardis, già pubblicata da Bulzoni nel 1991 e ora riproposta da Mimesis in un’edizione rivista a cura di Barbara Castiglioni (pp. 120,€ 12,00), si mantiene fedele a questa esasperata tensione uditiva, riproducendo in maniera spesso virtuosistica la rete di assonanze, anafore e allitterazioni in cui Cvetaeva «intrappola» i suoi personaggi. Il testo si regge infatti sul parallelismo fonico-semantico more-gore («mare-male») che viene esplicitato solo nel coro finale, pur percorrendo sottotraccia l’intera vicenda, iscritta in una struttura perfettamente circolare. L’azione ha inizio nel palazzo di Egeo ad Atene in attesa che le navi prendano il largo, per condurre a Creta sette giovinetti e sette fanciulle da sacrificarsi al re Minosse, e si conclude nello stesso luogo con il gesto disperato di Egeo che dalle rupi dell’acropoli si getta tra le onde, poiché Teseo, pur avendo ucciso il Minotauro, s’è dimenticato di sostituire le vele nere con quelle bianche in segno di vittoria.

Fin qui Cvetaeva segue il mito; l’originalità della sua Arianna risiede nella finezza psicologica con cui tratteggia i vani tentativi dei personaggi di sottrarsi al volere divino. In particolare, la protagonista si emancipa dal ruolo passivo di «abbandonata» che le attribuiva una tradizione gloriosa (dalle Metamorfosi di Ovidio al Lamento di Monteverdi) per trasformarsi in una eroina a tutto tondo che, pur presentendo l’imminente, inevitabile catastrofe, si abbandona consapevole alla passione.

Un candido marmo
«Amo» è l’ultima parola che pronuncia, prima di assistere addormentata, magnifica come un candido marmo canoviano, alla tenzone dialettica fra Teseo e Bacco che, in virtù della sua natura divina, ne rivendica il possesso, per renderla diversa e immortale: «La mia Arianna avrà nuovi sensi / La mia Arianna avrà nuovo tatto». E l’eroe, che pure ha appena affondato la spada nelle carni del Minotauro, arretra, conscio che sugli uomini non esiste potere più spietato di quello degli dei e che nessuna impresa realizzata in terra può competere con la forza rovinosa ma irresistibile del loro arbitrio.