Il teatro è l’unico assoluto antagonista del virus. O l’uno o l’altro. «Il virus ci assedia tutti, ma siamo noi delle arti viventi a subire il blocco più lungo» è l’allarme, lanciato su Télérama, da Ariane Mnouchkine. Perché il pubblico torni, rassicurato e festoso, le condizioni sanitaria da attivare non devono trasformarsi in censura. La distanza fisica non sarà mai possibile in teatro, che non si nutre soltanto di parole ma soprattutto di corpi – continua la regista, facendo eco alle parole di Gabriele Lavia a Milano – In scena, come in sala. Il contrario sarebbe la negazione della gioia».

In Francia, come in Italia, i festival estivi di teatro si sono autoridotti o trovano soluzioni alternative, come quella di un’inedita, promettente collaborazione tra Teatro Nazionale di Torino e Teatro Piemonte Europa, con la stagione al Carignano Summer Plays: tre mesi fino al 13 settembre, 100 recite più 16 «Extra Plays», tanta drammaturgia contemporanea, da Fausto Paravidino a Dario Fo, a Harold Pinter, Giovanni Testori e le proposte del Festival delle Colline. Una decisa risposta alla crisi, ma il problema, non ancora risolto, è intanto la sopravvivenza materiale delle istituzioni teatrali e di tutto quello che le fa vivere: attori, tecnici, registi, autori. Lo sa bene la Mnouchkine, che da 60 anni con il Théâtre du Soleil mette in scena alla Cartoucherie de Vincennes spettacoli anomali e d’impegno civile, da 1789 su carrelli ronconiani alla quadrilogia degli Atridi, ai suoi Shakespeare in chiave orientale, a Et soudain, des nuits d’éveil, sull’oppressione cinese in Tibet. Chi frequenta la sua «factory» teatrale l’avrà spesso incrociata, all’ingresso, intenta a strappare i biglietti. Ammirata anche in Italia, dove ha portato i suoi spettacoli al Piccolo di Milano, ricevendo nel 1992 a Taormina il Premio Europa per il Teatro, la regista, di grande rigore civile (ha rifiutato nel 2007 la nomina al prestigioso Collège de France perché suggerita da Sarkozy) non ha mai scisso teatro e realtà sociale. Tra i suoi impegni, il sostegno all’associazione Primo Levi, in aiuto di rifugiati in Francia, vittime di torture e violenza politica nel loro paese. Il suo sguardo del dopo-blocco è allargato all’intera scena culturale.

Che cosa la preoccupa, Ariane Mnouchkine?
Qui, nella cinta della Cartoucherie, abbiamo potuto lavorare sui nostri progetti durante il confinamento e possiamo continuare a farlo, grazie alle sovvenzioni, a una sede stabile e a tutta l’attrezzeria di cui disponiamo. Ora spetta a noi ritrovare lo slancio e la forza necessari. Ma noi siamo un’oasi privilegiata rispetto a tanti che, per trovare lavoro, dipendono da istituti essi stessi in difficoltà. Sono artisti, lavoratori, che non vanno abbandonati a loro stessi. Lo Stato deve intervenire. È da loro che dipende l’avvenire della creatività teatrale francese, la più ricca tra tutte, forse unica al mondo. Nessuno, né artista né spettatore, perdonerebbe mai che ritorni il deserto.

Qualcosa potrà cambiare al Théâtre du Soleil?
Il nostro fondamento è sempre la troupe, come quella di Molière, del Capitan Fracassa. Le regole che abbiamo stabilito fondando la compagnia nel 1964 sono rimaste: stipendio uguale per ogni membro della troupe, maquillage in pubblico, soupe servita agli spettatori, io a strappare ogni sera i biglietti all’ingresso. Le decisioni importanti, quelle che possono cambiarci il destino, sempre prese collettivamente. Quelli che non sono più contenti lasciano la compagnia, altri arrivano, alla spicciolata…

Come ha cominciato?
Dopo il mio debutto scolastico a Oxford, iscritta a psicologia, non facevo altro che darmi al teatro. Con amici avevo creato l’Association théâtrale des étudiants de Paris (Atep): è lì che si son incontrati tutti i fondatori del Théâtre du Soleil. Avevamo deciso di essere felici e di fare il più bel teatro del mondo. Eravamo ignoranti, ma con una gran qualità: socraticamente, sapevamo di non sapere. Pretenzioso dirlo oggi, ma ne sono convinta, sapevamo che tutto rimaneva da imparare, che ci aspettava un lavoro colossale: ne eravamo inebriati.

Qual è il metodo di lavoro nella preparazione degli spettacoli?
Ripartiamo sempre dall’infanzia, che costituisce la più grande influenza che abbiamo avuto nella nostra vita. Quando si ha la fortuna di averla mantenuta presente e accessibile e di non aver infranto tutto del bambino che siamo stati, possiamo rimetterci mano. È la mia infanzia che mi porta là dove vado. E gli attori, se sentono la mia infanzia, è perché hanno la loro: se sento la loro, è perché ho la mia. Le nostre infanzie si riconoscono.

Più concretamente?
Quando ho un tema in testa, lo propongo alla troupe: o è accolto con entusiasmo febbrile o con tepore di circostanza, allora capisco che devo cambiare. Il lavoro, poi, comincia con letture e immagini che condividiamo. Dalla prima prova, tutti salgono in scena e cominciamo a improvvisare o a lavorare sul testo, se c’è, ma sempre improvvisando. All’inizio di ogni spettacolo, mi chiedo sempre se ritroverò il teatro. Certo, è acquisito, ma non si fa qualcosa “che si sa fare”, al contrario, si cerca sempre di andare verso quel che non si conosce e che ci costringe a imparare. Credo che la vera conquista sia saper imparare.

Da dove viene l’attrazione verso i teatri d’Asia?
Una volta fondato il Théâtre du Soleil, ho avuto un po’ di tempo: ho viaggiato venti mesi in Asia, tornando in camion o in battello, senza mai prendere l’aereo, tranne che per attraversare la Birmania. È stato un viaggio iniziatico, l’influenza più profonda e duratura, dovuta non solo a spettacoli, ma a quel che vedevo per strada: l’Estremo Oriente. Ho capito ben presto che quelle forme teatrali sono l’essenza stessa del teatro o, in ogni caso, dell’arte dell’attore.

Opposizione teatro occidentale-orientale, come in Roland Barthes?
L’Occidente abbonda d’autori di teatro, dai greci ai russi passando per Shakespeare e Molière, mentre l’Oriente non ha che miti e epopee, ma è una specie di accademia permanente: là, gli attori hanno compreso da tempo la metafora che rappresenta il loro corpo. Mi ha strabiliato la scoperta di questi attori non realistici: il loro teatro è allora divenuto la mia terra, il mio parametro, cui m’appiglio quando ci sentiamo perduti o bloccati nella creazione: “Come avrebbero fatto in Giappone con il teatro ? O con il kabuki? E come avrebbero fatto a Bâli?”: Sono riflessioni che mi aiutano a spezzare i legami con il realismo, che s’immischia sempre quando c’è un problema, e ti mette all’angolo. Perché il realismo non è che l’imitazione della vita, mentre il teatro non si riduce alla vita: è la vita più un ritmo, la vita più un disegno…

Si ricorda dei primi spettacoli visti da bambina?
Il primo film, dopo la guerra: Gulliver’s Travels, del 1939, di Dave Fleischer. A teatro, L’Auberge du Cheval-Blanc, di Ralph Benatzky e Robert Stolz, nel 1948, avevo una decina d’anni: mi ha commosso per la sua bellezza, perché è sempre la bellezza che ci commuove. Più tardi, sono andata da sola, in pullman, al Festival di Mentone, per vedere l’Arlecchino, servitore di due padroni di Giorgio Strehler. Una sensazione fortissima: quando sono uscita, non ero più la stessa.

Da quali artisti è stata più influenzata?
Strehler, appunto: fondamentale nella mia vocazione, senza che me ne rendessi conto all’inizio. Quando ho visto nel 1966 i suoi Giganti della montagna a Parigi, ho trovato lo spettacolo così travolgente che sono stata lì lì per smettere. Ci sono tornata sette volte e mi son chiesta che cosa ci fosse ancora da scoprire. Nulla poteva essere più bello. Quel regista ha inventato tutto il teatro dall’inizio alla fine e mi chiudeva ogni porta in faccia. È quel che certi autori dovrebbero sentire quando leggono Eschilo o Shakespeare. Che resta da dire? Che forma resta da inventare?

Dove può andare il teatro in questo mondo malato?
Vuol dire: in questa democrazia malata, che assiste impotente a un peggioramento accelerato delle diseguaglianze? La democrazia in Occidente è sotto minaccia. Conosce la storia della rana? Se la si immerge nell’acqua bollente, schizza fuori immediatamente. Se la si immerge nell’acqua fredda e la si scalda pian piano, la rana non salta fuori, ma muore, cotta. È l’acqua fresca della democrazia che ci intiepidisce pian piano, sempre più.