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Argentina, paso doble

Argentina, paso dobleL'antropologo argentino Andrés Ruggeri

Intervista Andrés Ruggeri, direttore del programma di ricerca Facultad Abierta, il 21 al Cinema Palazzo

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 19 gennaio 2016

Direttore del programma di ricerca Facultad Abierta (Facoltà aperta) all’Università di Buenos Aires, autore del libro Fabbriche recuperate (edizioni Alegre), l’antropologo argentino Andres Ruggeri è in Italia per un ciclo di conferenze. Il 21 alle 18 sarà a Roma (Cinema Palazzo a San Lorenzo) per partecipare a un dibattito su “Potere popolare, l’alternativa possibile”, uno dei temi di questa intervista.

In che consiste il programma Facultad Abierta?
Dal 2002, nel pieno della grande crisi economica politica e sociale in Argentina, abbiamo iniziato a lavorare a un programma di sostegno per le imprese recuperate dai lavoratori, il Programma Facoltà Aperta. Fin dal suo inizio, io ne sono il coordinatore. Si tratta di una equipe di quelle che in America Latina si chiamano estensione universitaria. Si definisce così il lavoro dell’Università con la comunità, però da un punto di vista politico: nel senso che la ricerca e il supporto professionale e scientifico mirano a sostenere e sviluppare l’organizzazione popolare, in questo caso le imprese autogestite dai lavoratori. Fin da subito, il nostro lavoro di ricercatori sociali lo abbiamo inteso come partecipazione attiva al movimento e non come un’indagine che si presume asettica. Tra le attività sviluppate in questi anni, vi sono le quattro indagini nazionali di imprese recuperate, la formazione di una rete di ricerca latinoamericana sul tema, che riunisce accademici e organizzazioni sindacali, il Centro di Documentazione delle aziende recuperate (che funziona all’interno di una di queste imprese) e l’organizzazione della riunione internazionale “Economia dei lavoratori”, un’iniziativa che ha avuto inizio a Buenos Aires nel 2007 e conta già cinque edizioni. L’ultima si è svolta in Venezuela nel mese di luglio e vi ha partecipato anche il manifesto nella sua doppia veste di impresa recuperata e autogestita.

Perché considera importante il tema delle imprese recuperate?
Per diversi motivi, ma vorrei sottolinearne due. Il primo è che, in tempi di neoliberismo a livello mondiale, mentre milioni di lavoratori in tutto il mondo sono espulsi dai posti di lavoro perché questi semplicemente scompaiono o vengono spostati in altre parti, dove per il capitale è più facile il supersfruttamento della forza-lavoro, e per questo motivo le forme di lavoro sono sempre più precarizzate, il recupero da parte dei lavoratori delle unità produttive che chiudono rappresenta al contempo una resistenza e una soluzione. Recuperare un’impresa significa evitare che venga rimossa dal tessuto economico di una regione o di un paese insieme a tutto il lavoro e alle strutture produttive a cui è collegata. E, soprattutto, questo crea una organizzazione del lavoro basata su rapporti fondamentalmente democratici, egualitari e collettivi in cui lo sfruttamento dei lavoratori non è la base su cui è strutturato l’intero funzionamento del sistema economico. Questa è la seconda ragione che mi sembra importante: al di là di tutte le difficoltà incontrate nel processo reale e concreto, la società autogestita mira alla creazione di un’alternativa alla logica economica del capitale, e lo fa a partire da una situazione concreta, da una necessità e da una resistenza.

Si può fare un primo bilancio delle imprese recuperate, occupate e autogestite? Quante sono ora in Argentina?
Il quarto sondaggio che abbiamo fatto, alla fine del 2013, ha dato come risultato l’esistenza di 310 imprese recuperate nel paese, pari a circa 14.000 lavoratori impiegati. Attualmente, e con il cambio di governo, stiamo facendo un aggiornamento dei dati che porta ad un numero approssimativo di 350 casi e circa 16.000 lavoratori. La cosa interessante di questi numeri è che più della metà sono successivi alla crisi del 2001 (compresa l’estensione del periodo fino alla fine del 2003). Dal 2010 ad oggi, le imprese recuperate sono circa 110, mentre tra il 2001 e il 2003 ne sono state recuperate circa 150. Ciò significa che il complesso di imprese recuperate è diviso grosso modo in due: una metà, la più anziana, proveniente dall’ultimo periodo della gestione Menem e dalla fase neoliberista degli anni ’90, che si è sviluppata nel corso di tutti questi anni e che si è consolidata in oltre 10 anni di autogestione. E un’altra metà, di fabbriche recuperate più tardi: che si sono formate in una fase di espansione dell’economia o di un impatto molto più lieve della crisi globale grazie alle politiche del governo Kirchner basate sulla priorità del mercato interno e sulla protezione dell’economia dalle importazioni sfrenate. Anche se gli imprenditori hanno continuato le loro pratiche fraudolente (causa della maggior parte delle Ert, le imprese recuperate dai lavoratori), l’atmosfera per lo sviluppo di cooperative di lavoro è stata molto più favorevole rispetto all’epoca della crisi o a prima.Un altro aspetto da notare è che i processi di recupero non si danno senza lotta e senza conflitti. Cioè, quello che in Europa viene chiamato buyout, ovvero il processo giuridico attraverso il quale una società dichiarata fallita può trasformarsi in cooperativa di lavoratori, nel nostro paese implica necessariamente un qualche tipo di conflitto, anche per costringere i giudici ad applicare la procedura di buyout (attivata a partire dalla riforma della legge sui fallimenti del 2011). Pertanto, la decisione di cercare di autogestire la società o la fabbrica è una decisione collettiva che non dipende da meccanismi amministrativi, ma dalla lotta dei lavoratori, e ogni volta vi è una crescente consapevolezza e accettazione all’interno della classe operaia che questo sia possibile.

Quali sono le leggi che tutelano questo percorso e cosa succederà ora con la gestione Macri?
La legge argentina è piuttosto confusa rispetto alla realtà concreta delle Ert. Si può dire che i lavoratori, con le loro lotte, hanno forzato la lettera della legge e ottenuto alcuni spazi per avanzare. Per essere chiari, la legislazione non consente l’occupazione delle fabbriche e il trasferimento della proprietà privata alla proprietà collettiva dei lavoratori, ma ci sono alcuni percorsi che permettono di andare avanti per questa via. La legge sui fallimenti è stata modificata in pieno periodo neoliberista (1995) per facilitare la liquidazione delle imprese fallite, che lasciavano i lavoratori di strada. L’occupazione delle fabbriche ha cercato di evitare lo smantellamento degli impianti e di rimetterli in produzione. Dal 2000 al 2001, la pressione dei lavoratori e dei movimenti sociali ha cominciato ad ottenere l’approvazione delle leggi di esproprio, con cui lo Stato dichiarava di interesse pubblico le imprese che fallivano, le espropriava e le cedeva alla cooperativa di lavoratori. Queste leggi sono abbastanza temporanee e sempre rimesse in discussione, ma servono ai lavoratori per fermare il processo d’espulsione, e per ottenere l’autorizzazione legale a procedere. Più tardi, nel 2011, è stato possibile riformare il diritto fallimentare e il processo attraverso il quale i lavoratori della società fallita, se formano una cooperativa e mostrano al giudice la fattibilità del progetto, possono riscattare la compensazione dei debiti e dei salari (che di solito non vengono mai coperti nei fallimenti imputati) con la proprietà dell’impresa. Questo processo è comunque complicato e avviene spesso in un vuoto giuridico che si estende nel tempo e fa fallire il recupero o dà possibilità agli imprenditori o ai creditori del proprietario precedente di rivalersi sulla società con altri mezzi. Negli ultimi anni, ci sono stati alcuni sgomberi di fabbriche recuperate a causa dei ritardi nel processo di diritto fallimentare, come nel caso della grafica Mom, che mentre era in corso la procedura al tribunale di commercio, è stata sgomberata dalla polizia metropolitana (creata nella città di Buenos Aires dall’attuale presidente quando era sindaco, e che era ai suoi ordini) sulla base di una denuncia per “usurpazione” presentata a un altro tribunale. Ciò che è chiaro è che, al di là della legge, è la correlazione di forze sociali e politiche che consente a queste leggi di essere più o meno flessibili, più o meno favorevoli o dure. Il 2001 ha prodotto un rapporto di forze favorevole ai lavoratori e ha aperto la strada alla maggior parte delle imprese recuperate. Sotto il governo di Mauricio Macri, è molto probabile che vi sia un attacco ai lavoratori in questa congiuntura in cui il rapporto di forze è più sfavorevole che nel decennio precedente. La fragilità legislativa esistente è un elemento che favorisce la reazione neoliberista e che pone in pericolo l’esistenza delle Ert.

Il governo Macri cala la scure sui diritti. Dove ha sbagliato la sinistra in Argentina?
La vittoria della destra si basa su diversi fattori che andranno ancora approfonditi. In primo luogo, per la prima volta dopo tanto tempo la destra è riuscita a costruire una base di legittimità sufficiente per vincere le elezioni, il che significa che è riuscita a farsi votare anche dai settori popolari. La domanda è: come lo ha fatto, o meglio, ciò che non siamo riusciti a fare noi per prevenirlo ed evitarlo. Il governo di Cristina Kirchner è arrivato alle elezioni provato da una innegabile usura, in un contesto economico che per la prima volta da molto tempo ha colpito la capacità di consumo di gran parte della popolazione, e per di più impelagato in una defatigante disputa con il gruppo Clarín. E’ stato sottoposto a un attacco mediatico forsennato come avviene anche in altri paesi della regione in cui vi sono governi progressisti e di sinistra. Emblematica è la vicenda dei tre detenuti evasi di recente da un carcere di massima sicurezza e accusati di un triplice omicidio nel 2008. Durante la campagna elettorale, Jorge Lanata, un giornalista di grido del Clarin (un mercenario, visto che a suo tempo è stato fondatore di Pagina 12) ha raccolto la presunta confessione di uno di loro, poi smentita davanti ai giudici, in cui veniva accusato come mandante dell’omicidio, e dunque come narcotrafficante, il candidato a governatore della provincia di Buenos Aires per il kirchnerismo, Anibal Fernandez: un politico discusso, in quel momento capo di gabinetto di Cristina. Il caso ha suscitato molto scalpore. La destra ha conquistato la provincia di Buenos Aires, di cui Scioli era governatore: un risultato decisivo per il trionfo di Macri. Adesso, tutto il rumore sull’evasione dei tre e sulla loro cattura è servito a sviare l’attenzione dai licenziamenti di massa e dalla repressione. Il kirchnerismo non è riuscito ad attaccare alcune basi del potere economico della grande borghesia, a disarticolare il potere corporativo dei giudici e delle imprese di comunicazione, ma soprattutto non è riuscito a promuovere le organizzazioni popolari di base, i media comunitari, l’economia autogestita, tutte le politiche che gli avrebbero permesso di arrivare all’appuntamento elettorale con più forza (ricordiamo che abbiamo perso con meno del 3% al ballottaggio). Ma al di là di questi errori politici e di costruzione, il problema è che si è sottovalutata la capacità della destra di costruire una base sociale reazionaria capace di mobilitarsi, basata sui settori più retrogradi della classe media (settori che sono sempre esistiti e che negli anni ’70 hanno sostenuto la dittatura, per esempio). Si è sottovalutata la capacità di Macrì di fare una campagna elettorale efficace, e si è trascurata la contesa con le classi medie e medio basse. Il grande successo della destra, e questo non è un fenomeno esclusivamente argentino, è stato quello di costruire un elettore-consumatore che acquista un voto come un prodotto al supermercato, e la destra ha fatto una brillante campagna per conquistarlo, mentendo deliberatamente in campagna elettorale. Questo elettore-consumatore, paradossalmente, è stato prodotto, o meglio rafforzato, proprio dal successo della politica economica del governo, basata sul recupero dell’economia nel mercato interno, attraverso il consumo. Così, invece di promuovere un soggetto popolare organizzato e cosciente, si è finito per promuoverne uno smembrato, individualista e consumista, che ha anche pensato che le conquiste ottenute dalle lotte del 2001, e le coperture sociali realizzate in questi 12 anni fossero diritti acquisiti una volta per tutte. Convincere gli elettori di questo è stato un grande risultato della destra, la chiave della vittoria.

Anche in Venezuela si assiste al ritorno delle destre, si notano disaffezione e critiche della base, le stesse che si riscontrano in altri paesi del Latinoamerica dove governano le sinistre…
La situazione del Venezuela è molto diversa da quella dell’Argentina: in primo luogo per la profondità e radicalità del proceso venezuelano che cerca di avanzare nella costruzione del socialismo (anche se non ha molto chiaro quale sia il cammino), mentre il kirchnerismo non si è mai posto questo obiettivo. A livello di base, in Venezuela c’è una maggior radicalità e lo scontro di classe assume caratteri di maggior violenza. E poi, anche se le destre hanno vinto in Parlamento, il governo resta in mano a Maduro. La sconfitta ha messo a nudo quel che una parte dell’apparato di governo cercava di nascondere: le contraddizioni interne al processo, la sua burocratizzazione e anche la corruzione di ampi settori della burocrazia del Psuv e dello Stato. I prossimi mesi ci diranno se il movimento chavista riuscirà a far progressi contro questi mali, a rafforzare l’organizzazione popolare, ad avanzare nelle trasformazioni economiche e a sanare il rapporto tra movimento e il governo: perché sono i suoi propri problemi che lo portano alla sconfitta più che i meriti di un’opposizione che non sa bene quello che vuole, salvo farla finita con il chavismo. Quanto alle altre esperienze, penso siano molto diverse l’una dall’altra. Il Venezuela è sicuramente il luogo dove più si è cercato di costruire il socialismo anche se ora il progetto sembra dover passare attraverso un complicato collo di bottiglia e non si sa come andrà a finire. Nel caso della Bolivia, l’importanza dei movimenti sociali nel plasmare il progetto del governo gli ha dato una spinta che sta reggendo, ma i limiti di rimanere all’interno dell’egemonia economica del capitalismo appaiono sempre più chiari. Il problema è che i rapporti di forza internazionali sono sempre più sfavorevoli, e questo complica i problemi nei contesti che intendono costruire il socialismo. Oltretutto, per miopia politica, mancanza di forza o per complicità con gli interessi delle transnazionali e dell’impero, i governi progressisti non hanno completato l’architettura regionale necessaria per consolidare l’integrazione latinoamericana, in particolare la Banca del Sud, che sarebbe stato uno strumento di sviluppo potente e che il Brasile ha boicottato. Il resto dei paesi, tranne il Venezuela, ha passivamente accettato.

E cosa pensa di quel che accade nei paesi di sinistra più moderata come Brasile e Cile?
La situazione più complicata e determinante la vedo in Brasile. E mi pare difficile definire il governo cileno di sinistra. Il Brasile è un paese grande e complesso e costruire forze politiche nazionali capaci di avere la propria egemonia politica è abbastanza difficile. Il Pt non ci è riuscito, pur essendo il più grande partito. Arriva al governo con Lula attraverso un’alleanza con i partiti di centro e anche di destra, che lo condizionano nel governo e che sono quelli che gli garantiscono una maggioranza parlamentare. Anche se il governo del Pt non ha mai toccato gli interessi dei potentati economici (a differenza di Chavez, Evo e Correa, e anche di Nestor e Cristina Kirchner), le politiche redistributive e di accesso a un certo livello di consumo hanno fatto inferocire la grande borghesia e anche della classe media. Nonostante i suoi limiti, i freni autoimposti nel cammino verso politiche economiche più progressiste, i grandi benefici concessi all’industria e all’agri-business dai governi del Pt, da qualche anno l’offensiva per cacciare dal governo il Partito dei lavoratori è feroce. Anche in Cile, quando Bachelet torna alla presidenza con la promessa di far proprie le rivendicazioni del movimento studentesco sulla gratuità dell’educazione, si scontra con un’opposizione brutale, sproporzionata se guardiamo agli altri suoi atti di governo. Bachelet non si discosta in altri temi dall’agenda neoliberista, ha firmato anche il Tpp, ma nonostante questo la destra le ha scatenato contro una campagna furibonda. Tutto indica che la destra latinoamericana si è ringalluzzita negli ultimi anni nel percepire che la crisi internazionale avrebbe ridotto la possibilità dei governi “progressisti” di maneggiare l’economia con una certa tranquillità. Questo le ha aperto una opportunità per avanzare verso la riconquista del potere a livello continentale. Le vittorie in paesi importanti come Argentina e Venezuela le forniscono nuovo slancio per cacciare dal governo anche quelli che si sono mostrati così moderati da non aver attaccato il seppur minimo interesse dei grandi gruppi economici o del capitale finanziario internazionale.

In tutta l’America Latina questo ciclo progressista ha sviluppato il potere popolare e la democrazia “partecipativa e protagonista”, lo abbiamo visto per l’autogestione e per le comunas ma anche nei vertici sull’ambiente. Quali sono per lei i punti in comune tra Argentina, Uruguay, Venezuela o Brasile?
Ci sono analogie ma anche grandi differenze. In tutti i paesi, i governi hanno avanzato di più quando c’è stata una maggiore organizzazione e mobilitazione sociale. Dove hanno vinto attraverso uno schema puramente istituzionale, partitico, senza movimenti di base come slancio, come l’Uruguay o il Cile, la partecipazione non è riuscita a spingerli oltre la dinamica istituzionale stabilita, né tantomeno è stata promossa o favorita dal sistema politico. La partecipazione, il potere dal basso, vengono sempre guardati con sospetto dall’istituito, anche da coloro che per origine ideologica o storica dovrebbero essere favorevoli. Invece, i processi con una base o conflitti sociali più forti sono stati i più avanzati, in particolare nei canali di partecipazione e di organizzazione comunitaria. In Argentina, il kirchnerismo non è stato un governo di movimenti sociali (molto meno rispetto al Pt brasiliano, per esempio), ma la sua legittimità di origine è strettamente legata alla ribellione del 2001, alle proteste e alle mobilitazioni degli anni successivi. E’ stato un governo che, soprattutto nei primi anni, se pure per la sua sopravvivenza, ha prestato orecchio ai movimenti. Il problema si verifica quando l’esercizio di gestione dello Stato prende il sopravvento sull’organizzazione popolare, e il confronto politico cessa di opporre la forza di un popolo organizzato dal basso ai potenti, e si trasforma in una contesa tra amministratori di un apparato di Stato. All’opposto, si sono sviluppate numerose esperienze di economia dal basso, come le imprese recuperate e altre imprese autogestite, reti di economia solidale, movimenti comunitari indigeni, differenti studi venezuelani per creare potere popolare in ambito economico, come le comuni e le imprese di proprietà sociale…

Tutto questo può interessare l’Europa? In molti guardano al “modello bolivariano” e ai Brics per uscire l’euro. E come si può sviluppare una strategia comune?
Durante tutti questi anni, il continente latinoamericano è stato un laboratorio di enorme creatività politica e sociale, il più grande del mondo. Mentre il resto del pianeta correva verso l’autodistruzione sociale e la crisi neoliberista, l’America Latina tesseva legami per una integrazione basata nella crescita comune, e non sul business finanziario. Si sviluppavano esperienze di autogestione, movimenti sociali potenti, organizzazioni comunitarie con capacità di autogoverno, ci si riappropriava della parola socialismo…Tutte queste esperienze dal basso possono e devono servire come ispirazione in Europa, come lo è stato il vecchio movimento operaio europeo per i latinoamericani. Tuttavia, bisogna guardarsi dall’ammirazione acritica e decontestualizzata e dal voler copiare esperienze. Ogni popolo deve sviluppare propri strumenti per il cambiamento, anche se sempre serve conoscere quel che succede dalle altre parti, e anche i problemi e i limiti. Sul piano della politica economica, non credo che l’America latina abbia potuto costruire niente che possa servire da ispirazione in Europa, però ci sono senz’altro degli insegnamenti che derivano dalla nostra crisi neoliberista che possono servire molto, specialmente per i paesi del sud d’Europa: per uscire dalla trappola dell’euro e dell’autestirà perpetua.

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