Per quanto il presidente Alberto Fernández non abbia risparmiato sforzi per rassicurare la popolazione sui negoziati in corso con il Fondo monetario internazionale, i movimenti popolari argentini non si sono lasciati convincere. Così, sono stati centinaia di migliaia i manifestanti che sabato hanno riempito Plaza de Mayo e altre piazze del paese per denunciare l’imminente nuovo accordo con il Fmi, finalizzato a rinegoziare il debito di 57 miliardi di dollari contratto da Macri (poi ridotto da Fernández a 44) dilatando i termini di pagamento. Un accordo che, denunciano, comporterà in ogni caso un «aggiustamento economico e fiscale» in un momento in cui «più del 40% della popolazione si trova al di sotto della soglia della povertà».
Le organizzazioni dei lavoratori, dei piqueteros, delle donne, degli ambientalisti non perdonano al governo di riconoscere la legittimità di un debito che ha unicamente favorito «la fuga di capitali e le multinazionali», e di farlo oltretutto «senza neppure punire i responsabili». E allo stesso modo puntano il dito contro il Piano pluriennale che Fernández presenterà al Congresso, con le principali linee di politica economica dei prossimi anni, come un passo fondamentale nei negoziati con il Fmi.

UN PIANO DESTINATO, dicono i manifestanti, a «sottomettere per decenni tutto il popolo argentino» alla priorità fondamentale di trovare dollari per il pagamento di un debito «illegittimo e fraudolento» di cui «neppure un peso» è stato utilizzato per le necessità popolari, con la conseguenza, tra molto altro, di intensificare a tal fine un modello estrattivista predatorio ed ecocida.
Ricordando come il governo abbia già sborsato per il pagamento del debito estero, tra il 2020 e il 2021, 12 miliardi di dollari – una somma che sarebbe servita a costruire 500mila case popolari e a dare lavoro a 2 milioni di disoccupati – e si appresti a versare al Fmi, il 22 dicembre, un altro miliardo e 900 milioni, i movimenti definiscono il debito uno «strumento di dipendenza» e un «meccanismo di usura» – «più si paga, più si deve» – destinato a «condizionare tutta l’economia nazionale». E così invitano tutti i settori popolari a unire le forze contro il patto con il Fmi, in maniera «che non sia il popolo, ancora una volta, a dover pagare la crisi, ma quanti l’hanno provocata».

Eppure Fernández ci aveva provato a disattivare la protesta, assicurando che «non si negozierà nulla che possa mettere in pericolo la crescita e lo sviluppo sociale» del paese e promettendo per il prossimo anno l’aumento dei salari e una migliore distribuzione delle risorse. Senza però mai mettere in dubbio la necessità di onorare l’illegittimo debito di Macri.
Ma se le rassicurazioni del presidente non sono bastate, tanto meno ha convinto la manovra con cui la vicepresidente Cristina Kirchner ha tentato ben poco elegantemente di tenere i piedi in due staffe. Lo ha fatto con un messaggio definito molto opportunamente la lettera del «non sono stata io», in cui, da un lato, ha cercato di scaricare la responsabilità dei negoziati su Fernández e sul Congresso, con tanto di invito al popolo a «scendere in piazza per difendere i suoi diritti», e, dall’altro, ha esortato a un impegno collettivo a favore di un accordo con il Fondo Monetario che non comprometta «il recupero dell’economia».

DI TUTT’ALTRO AVVISO sembra però la direttrice del Fmi Kristalina Georgieva, la quale ha ribadito «l’importanza di lavorare per un programma che migliori significativamente i fondamenti macroeconomici dell’Argentina e ponga il paese in un sentiero solido che lo conduca al di fuori della crisi».