Que se vayan todos! Era il dicembre del 2001, e l’intera classe dirigente argentina sprofondava nel grado zero della sua credibilità. Il Presidente De la Rúa aveva appena scatenato una selvaggia repressione nel tentativo di porre un freno ai tumulti sociali che scuotevano il Paese, giunto al culmine della stagione della grande espropriazione neoliberista. Le ingenti privatizzazioni avviate da Menem negli anni Novanta sotto l’ombrello del Washington consensus avevano già destrutturato l’apparato produttivo e finanziario nazionale a vantaggio dei centri metropolitanidell’accumulazione, mentre lo Stato perdeva la propria autonomia monetaria con l’ancoraggio fisso del peso al dollaro. Nonostante un iniziale boom economico dovuto all’afflusso di capitali esteri, il Paese fu travolto dal contagio delle crisi finanziarie che scossero la metà del decennio, dal Messico all’Indonesia alla Russia. Il FMI concesse un prestito ponte al Paese, imponendo però una severa cura austeritaria che condusse alla paralisi bancaria e ad una disoccupazione esorbitante: l’Argentina costituì in breve il de te fabula narratur per l’Europa di oggi.

Que se vayan todos! Il movimento dei piqueteros bloccava le strade, e dalle assemblee di quartiere e dalle fabbriche occupate e autogestite iniziava a prendere corpo l’alternativa popolare. E così, uno dopo l’altro, caddero gli esponenti di punta del clan neoliberale che aveva condotto il Paese alla catastrofe. Cadde De La Rúa (del quale si ricorderà una sintomatica candidatura al selettivo club dell’“Ulivo Mondiale”, animato da D’Alema, Clinton, Blair e dal capo della destra brasiliana, Cardoso); cadde dopo di lui il successore ad interim Duhalde; e cadde, con le Presidenziali convocate per il marzo del 2003, il vecchio Menem, che alla pratica delle relaciones carnales con gli Stati Uniti aveva dato il primo input, per poi infeudare il Paese alle vestali dell’austerità. Ma non se ne andarono tutti. Rimase in sella Néstor Kirchner, un avvocato sureño già impegnato nella difesa dei diritti civili, con alle spalle una lunga militanza nel peronismo oppositore alla dittatura, vissuta in simbiosi con la moglie Cristina Fernández.

Il kirchnerismo, fin dalla prima elezione di Néstor, e poi con i mandati di Cristina, ha significato innanzi tutto un’imponente opera di ri-definizione dello Stato-nazione, in piena sintonia con quanto sperimentato in questo scorcio di millennio in altre realtà latinoamericane. Rispondendo a differenti tradizioni politiche e retaggi culturali, il neopopulismo ha saputo guidare con successo il contro-movimento dallo Stato prima dittatoriale e poi aparente (Alvaro Garcia Linera) allo Stato post-neoliberale: la costruzione dello Stato bolivariano in Venezuela, dello Stato Integral in Bolivia e dello Stato nacional-popular in Argentina si è retta su di un processo convergente di riequilibrio tra il potere della élite mercatista a quello dei movimenti popolari. Il kirchnerismo ha promosso la riappropriazione da parte dello Stato della propria sovranità in materia monetaria, energetica, assistenziale, educativa e infrastrutturale. Accentuato interventismo statale, ingenti aumenti salariali e ristrutturazione del commercio estero lungo l’asse sud-sud hanno costituito il volano dell’economia nazionale, accanto ad un rigido controllo sui capitali. L’ultimo grande atto della Presidenza di Cristina è stato l’approvazione di una legge che impone un consenso parlamentare dei 2/3 per poter avviare processi di privatizzazione nei settori strategici. Nonostante le minacce provenienti dai fondi speculativi “avvoltoio”, le politiche anticicliche messe in campo hanno permesso di saldare il debito rinegoziato a seguito del default. Se è vero che l’assidua ricerca del partenariato commerciale cinese ha eccessivamente legato le sorti del Paese al traino del gigante asiatico, gli impulsi diretti all’allargamento del mercato interno sembrano aver fornito un parziale correttivo al raffreddamento della domanda estera.

Al contempo è stata avviata una grande operazione culturale volta a ri-significare in termini progressivi lo spazio patriottico e la cultura nazionale. Il movimento popolare si è potuto riappropriare, nell’arena del senso comune, della parola patria, dopo che per oltre un quarantennio le classi dirigenti tradizionali avevano agevolato il saccheggio da parte dei centri metropolitani dell’accumulazione capitalistica in nome dell’esigenza della difesa della nazione dalla minaccia rossa. Il lascito originale del peronismo è stato oggetto di rivalutazione critica in senso nazional-popolare da parte degli intellettuali organici allo spazio kirchnerista. La memoria storica dei martiri della dittatura e l’azione di Madres de Plaza de Mayo hanno piena cittadinanza nell’Argentina di oggi, mentre i responsabili del Plan Condor sono perseguiti con una solerzia che non ha pari in tutto il Cono sur.

La costruzione dello Stato nacional-popular è proceduta di pari passi con il protagonismo argentino nei vari processi di integrazione regionale e sub-continentale. L’atto che forse più di ogni altro ha innescato il rinascimento politico della Patria Grande fu il no al progetto di integrazione continentale ALCA opposto a Bush Jr., nel corso del vertice di Mar del Plata del 2005, da Chávez, Kirchner, Lula e Tabaré Vázquez. Da allora in poi, non senza crisi e contraddizioni, la solidarietà latinoamericana ha ricevuto un impulso crescente verso la creazione di un blocco compatto in grado di fronteggiare la sfida egemonica di Washington, fino a creare le condizioni per la Canossa statunitense nei confronti della Cuba socialista.

L’azione di governo del kirchnerismo ha interagito con un vasto fronte popolare nella società, composto da movimenti sociali tradizionali e sorti nel fuoco della grande rivolta del 2001, dalla militancia degli anni Settanta rianimata dopo la notte della dittatura e l’emarginazione dell’età neoliberale, dall’attivismo giovanile, oltre che da un dosato e non sempre facile compromesso con il notabilato peronista locale. Quest’ultimo versante è forse il fomite delle principali contraddizioni. Se da un lato l’aver raccolto l’intera eredità del peronismo ha permesso al kirchnerismo di stabilizzare il proprio ruolo nazionale e di contare su di una struttura organizzativa di riferimento per l’intero Fronte, dall’altro la filiazione diretta dal menemismo di gran parte del gruppo dirigente Justicialista lascia cadere più di qualche ombra sul futuro del movimento. Il candidato scelte dalle primarie, l’ex governatore della provincia di Buenos Aires Daniel Scioli, è stato spesso freddo nei confronti delle più incisive mosse di governo di Cristina, ed è riconosciuto come il più sensibile, tra gli esponenti del Frente para la Victoria, ai richiami all’ordine delle élites tradizionali. A bilanciare la figura di Scioli è stato perciò scelto come suo vice Carlos Zannini, espressione della militanza kirchnerista pura. Ma il futuro dell’Argentina nacional-popular rimane legato soprattutto alla capacità di tenuta del blocco sociale evocato dal kirchnerismo nell’ultima decade, e dalla non dismessa leadership di Cristina.