Ieri si è concluso il processo più importante e più lungo di tutta la storia dell’Argentina. Dopo 5 anni di udienze che hanno coinvolto 54 imputati e 789 vittime la causa è arrivata a sentenza con 48 condanne: 29 ergastoli, 19 colpevoli con pene da 8 a 25 anni e 6 assolti. Il processo ha giudicato la violazione dei diritti umani nel principale campo di concentramento della dittatura militare (1976-1983), la famigerata Esma, la Scuola di Meccanica Navale in cui venivano portate le persone sequestrate dal regime.

Le vittime dell’Esma sono migliaia, il processo ha riguardato solo i casi di alcuni superstiti e di molti che furono uccisi durante la tortura o gettati vivi in mezzo al mare da aerei della Marina nei tristemente celebri «voli della morte». Con queste condanne all’ergastolo si è chiuso un processo esemplare in materia di diritti umani non solo per l’Argentina ma per l’intera umanità.
Sono passati ormai 40 anni dai fatti, ma il processo ai responsabili del principale centro illegale di detenzione, tortura e morte di dissidenti politici o presunti tali, vuole rappresentare un altro passo verso il consolidamento della memoria storica. I militari condannati non si sono mai pentiti, non hanno mai collaborato con la magistratura e soprattutto non hanno mai rivelato la fine di migliaia di desaparecidos.

Ora si sa che molti desaparecidos sono in fondo al mare. Si calcola che solo con «i voli della morte» dell’Esma siano state gettate in mare vive oltre 5.000 persone. Purtroppo il patto di sangue tra i militari ha funzionato e i familiari delle vittime non sapranno mai quale fine abbiano fatto i loro cari. L’impassibile silenzio degli assassini è stato una costante in tutti i processi che si sono susseguiti in questi anni. L’impunità della dittatura però è stata possibile grazie alla complicità di molti argentini.

L’arroganza militare giocava a un doppio messaggio, da una parte nascondeva centinaia di campi di concentramento disseminati in tutto il territorio, si calcola oltre 360. Dall’altra, davanti alle telecamere, si rappresentava la normalità di un governo militare affiancato dalle più alte autorità della chiesa cattolica. Si parafrasava con insolenza Bertolt Brecht dicendo «Prima uccideremo tutti i sovversivi; poi uccideremo i loro collaboratori; poi i loro simpatizzanti; poi chi rimarrà indifferente, e infine uccideremo gli indecisi». Come dichiarò, senza scomporsi, il generale Iberico Saint-Jean, governatore della provincia di Buenos Aires, parole pubblicate in Francia da Le Monde all’inizio della dittatura. Così, la complicità di un ampio settore della società e l’indifferenza internazionale hanno reso possibile un genocidio.

La riparazione storica continua, la memoria è la facoltà che dimentica e deve essere continuamente ripresa per non ritornare all’oblio. Questo lungo percorso è iniziato nel 1985 durante il governo di Raúl Alfonsín, che condannò i membri delle Giunte militari per delitti di lesa umanità. La dura sentenza non fu però definitiva: calmate le acque, i carnefici furono beneficiati dall’indulto nel 1989 durante il governo di Carlos Menem. Ma prima ancora, nel 1986, lo stesso Alfonsín aveva fatto retromarcia e sancito le norme di «Punto finale» e «Ubbidienza dovuta», per fermare la valanga di processi aperti contro i militari. S’impedì l’apertura di nuovi processi e furono scagionati gli autori materiali di torture e omicidi sostenendo che i quadri intermedi non avevano potere decisionale. I processi sono rimasti bloccati dalle leggi dell’impunità fino al 2005, anno in cui la Corte suprema dichiarò finalmente l’incostituzionalità di quelle norme.

Grazie alle pressioni del governo di Néstor Kirchner si sono riaperti in Argentina centinaia di processi e molti imputati sono stati condannati. Lo stesso generale Jorge Videla morirà in carcere nel 2013 ammettendo la necessità della «disposizione finale» che ha lasciato 30.000 desaparecidos. Nei governi di Néstor e Cristina Kirchner la promozione dei diritti umani è rimasta al centro delle loro politiche. Néstor Kirchner si era definito nella prima assemblea delle Nazione Unite come figlio delle Madri di Piazza di Maggio.

La sentenza ora arriva in una Argentina sconvolta dal ritorno al passato con le politiche del presidente Mauricio Macri.

La dirigente indigena Milagro Sala rimane in carcere anche se la Commissione diritti umani dell’Onu, Amnesty e l’opinione pubblica internazionale considerano arbitraria la sua detenzione. Il ritorno alle politiche neoliberiste è accompagnato da politiche repressive di ogni tipo che hanno perfino provocato la scorsa settimana la morte di Rafael Nahuel, indigeno che rivendicava l’ancestrale proprietà delle terre mapuche oggi proprietà del nostro Benetton.

Sono passati 40 anni, ma le ferite non si sono mai rimarginate e il clima che si respira con il governo Macri dimostra quanto sia difficile nella storia dei popoli considerare acquisito quell’agognato «mai più», quel Nunca más che si declamava ieri in aula ed è un impegno per un futuro che non sia un ritorno al passato.