“Boschi Renzi, Etruria a pezzi”. Lo striscione in piazza, davanti alla sede storica della banca, è un barometro che segna tempesta per il governo. Attaccato da destra e da sinistra per quanto accaduto ad azionisti e obbligazionisti – subordinati – di Banca Etruria, e degli altri tre istituti di credito salvati dal fallimento. Nella città toscana, dove Banca Etruria era nata nel 1882, ci sono i leghisti Salvini e Borghi, la forzista Bergamini ed esponenti di Fdi e M5S. Ma c’è anche Giovanni Paglia, capogruppo in commissione finanza di Sel. “Salvini si è astenuto quando si decideva su questo tema in Europa – osserva – la destra non può dire molto su queste vicende”. Poi Paglia e il consigliere aretino Norcini attaccano: “Il problema vero è che il governo ha svenduto la stabilità del sistema bancario italiano, e i risparmi di 150mila persone, per ottenere il via libera della Commissione europea alle sue regalìe, quali i 500 euro ai neo-elettori”.
La manifestazione è la seconda in due giorni: ieri c’era stata un’assemblea alla Borsa Merci, con gli ex obbligazionisti che si erano ritrovati con Federconsumatori e Cgil per fare il punto. Per raccontare storie drammatiche, e cercare una soluzione per recuperare le somme perdute. Oggi si replica. E c’è un minuto di silenzio per Luigino D’Angelo, pensionato settantenne di Civitavecchia che aveva perso più di 100mila euro, e che a fine novembre si è tolto la vita. Sul suo caso, scoperto dal sito etrurianews.it, la procura della città laziale ha aperto un fascicolo di indagine contro ignoti, ipotizzando il reato di istigazione al suicidio. Al fascicolo è stata allegata anche la lettera che D’Angelo ha scritto alla moglie prima di uccidersi, lanciando le sue accuse verso una banca che per tutto il 2015 aveva fatto orecchie da mercante alle sue richieste, anche pressanti, di tutelarsi dal rischio di perdere il capitale.
Che il rischio fosse alto per gli investitori si era capito fin da febbraio, quando Bankitalia aveva commissariato l’istituto di credito e aveva aperto la procedura di amministrazione straordinaria. Una decisione legata all’esito degli accertamenti ispettivi, avviati già nel 2013, che hanno fatto saltar fuori la polvere sotto il tappeto della “banca degli orafi”, così come ad Arezzo è chiamata la Bpel, Banca popolare dell’Etruria e del Lazio. Le cui gestioni hanno provocato fortissime sofferenze causate dai crediti deteriorati. Da affidamenti e linee di credito aperte con disinvoltura. E non tanto indirizzate al tessuto delle piccole e medie imprese del territorio di influenza, a cavallo fra la bassa Toscana, l’Umbria e l’alto Lazio, quanto ai consueti “cerchi magici” imprenditoriali e finanziari.
Il risultato è da brividi: quando il 22 novembre scorso il governo ha approvato il “decreto salvabanche”, Bpel aveva 526 milioni di passivo, e 2,8 miliardi di crediti deteriorati (sofferenze e incagli). Cifre enormi per un istituto con solo 1695 addetti e 182 sportelli. E se il piano approvato dal governo ha imposto al sistema bancario la creazione di una bad bank con i crediti deteriorati e la ricapitalizzazione della banca, diventata oggi la “Nuova banca dell’Etruria e del Lazio”, il conto del salvataggio per i detentori delle azioni e delle obbligazioni subordinate, oggi azzerate, si aggira sul mezzo miliardo.
La caduta della banca, storicamente massonica con la lunga gestione di Elio Faralli e poi con venature andreottiane, dopo che negli anni ’90 c’era stata la fusione con la Banca dell’Alto Lazio, ha segnato anche la caduta dell’ultimo cda di cui era vicepresidente Pierluigi Boschi, padre di Maria Elena Boschi. La procura aretina, che indaga sul crack, ora vuol capire come sia possibile bruciare quasi tre miliardi senza che dal territorio si alzi un allarme. E che tredici ex amministratori abbiano preso fidi per 185 milioni lasciando per strada 80 milioni, anche in questo caso senza alcuna denuncia pubblica.
Ad Arezzo il clima diventa di ora in ora sempre più caldo. Anche perché si finiscono per scoprire gli altarini. Ad esempio che, prima del decreto “salvabanche”, alcuni ben informati obbligazionisti di Banca Marche trattarono, e riuscirono a restituire le loro obbligazioni subordinate. Rimettendoci denaro. Ma non tutto, come accaduto a Luigino D’Angelo e a migliaia di altri.