Quando nel 1598 John Florio diede alle stampe in Inghilterra il primo dizionario italiano-inglese, A Word of Words, fra i pochissimi autori da cui aveva selezionato il vocabolario non mancava Pietro Aretino: segno che la Controriforma, la cui scure moralistica si era abbattuta in Italia, in terra anglicana aveva lasciato liberi di pescare impunemente dalle carte dello scrittore quel che altrove non poteva trovarsi. La lingua dell’Infame – come fu ribattezzato con acrimonia da un ex discepolo – è infatti la più ricca ed effervescente che si possa trovare nel nostro Cinquecento. La disinibizione dei contenuti si rispecchia totalmente nella varietà di registri, fuori dalle pastoie delle architetture del latino (che, forse fortunatamente, egli conosceva a malapena). Alcune scene della commedia La Cortigiana (uno sberleffo alla curia pontificia), certe lettere a potenti o amici e parecchie pagine del Dialogo (nel quale la Nanna insegna a la figliuola Pippa l’arte puttanesca) senza alcun dubbio restano da antologia, alla lettera.
Dice benissimo Francesco Sberlati in L’infame Storia di Pietro Aretino (Marsilio «Saggi», pp. 414, euro 32,00): «Per agilità e nitidezza dell’innovazione verbale, per forza di una ricercata nequizia pronunciata con somma diligenza lessicale, per l’equilibrio dinamico tra forma discorsiva e architettura strutturale, la qualità dei testi cosiddetti osceni, pieni di sfumature e scherzose allegorie, impone il rispetto per un’opera perfettamente riuscita, perfino sotto il profilo tecnico». Ma è apprezzabile che lo studioso dedichi un buon numero di pagine anche alle opere devote finali: Passione, Umanità di Cristo ecc., che andrebbero lette come veri e propri programmi di affreschi, abbozzi di dipinti, sinopie a caratteri mobili.
Ma in questo suo affresco Sberlati non si occupa anzitutto di fare critica letteraria e lascia le opere di Aretino come comprimarie di altri elementi. Segue mirabilmente le maglie dell’intreccio degli aspetti storico-geografici, attento alla ricezione immediata e a quella nei secoli, senza scendere nella diagnosi delle opere, che fluttuano come il resto, in una stratificazione di aneddoti e personaggi: il che avrà sicuramente necessitato anni di lavoro (forse per questo, per il teatro non arriva alle più recenti edizioni di Larivaille, Trovato-Della Corte, D’Onghia).
Il libro sembra quasi recuperare idealmente il giudizio che traspariva dalle righe del grande storico ottocentesco del Rinascimento Jacob Burckhardt: l’Aretino capace di essere, con le sue lettere, un interlocutore di grandi potenze e acuto interprete degli eventi (ma un giudizio più riduttivo mi pare sia da ascrivere al moderno storico Giuseppe Galasso).
L’impianto del saggio di Sberlati è soprattutto basato sulle città nelle quali si svolge la vita di Aretino, secondo la visione policentrica dell’Italia lasciataci in eredità da Carlo Dionisotti. Innanzitutto Roma, dove il giovane comincia a sgomitare a forza di prese per il bavero della curia cardinalizia, soprattutto per le opulenze indecorose e durante le fasi apicali dei conclavi, vergando ‘sonettesse’ al vetriolo da appendere al torso di un gruppo marmoreo romano antico (ancora oggi in via del Parione), ampliando gli orizzonti della recente tradizione locale della pasquinata. Abbiamo qui subito una prova di bravura del saggista, che disegna con esattezza e vivacità la corte di Leone X, certo tra le piú affascinanti del Rinascimento. È qui, a contatto con gli intellettuali umanisti con cui non può competere, che Aretino accumulerebbe un rancore antiletterario e anti-establishment che gli servirà da zolfo in futuro (mentre Paul Larivaille vede l’impellenza di costante rivalsa nell’esser nato da una prosituta polacca e un padre di mediocri condizioni economiche). L’impeto anticuriale impedisce allo scrittore di capire che l’aria sta cambiando: la minaccia del luteranesimo imporrebbe di fare quadrato, all’insegna del neoguelfismo.
Ma la goccia che fa traboccare il vaso, per Aretino, è la provocazione di accludere dei sonetti al già di per sé dovizioso kamasutra a bulino di Marcantonio Raimondi (ispirato a disegni di Giulio Romano). Ecco il tentato assassinio per mano di un sicario, mano armata dal datario pontificio Giberti; e, dopo una parentesi al fianco dell’amico Giovanni de’ Medici – capitano mai abbastanza rimpianto delle Bande Nere, temutissime dagli invasori d’oltralpe –, ecco che il Nostro prende la via di Mantova alla corte di Federico Gonzaga: un marchese che ambisce ad assurgere a mecenate di una corte punto di riferimento del Nord della penisola. Qui Aretino comincia a essere «l’Aretino»: lancia salaci, paradossali e comici pseudo-pronostici (alla moda, parodiata, dei pronostici ben tenuti per veri) e si rivela, con il Marescalco, autore in grado di inserirsi in una tradizione locale (si era appena messa in scena la Calandra del Bibbiena) ma insieme di innovare. Ed è sempre qui che egli mette a frutto le tonalità di encomio propagandistico, che rimarranno sempre nelle sue corde (insieme a quelle oltraggioso-ricattatorie che altri studiosi hanno preferito far risaltare).
Nella repubblica di Venezia, il centro editoriale più produttivo d’Italia, giunge ad avere la protezione dei dogi. Palazzo Bolani, dove rimane per vent’anni prima di essere cacciato per morosità, vive in una sua micro-corte di pittori, architetti (Tiziano, Sebastiano Serlio), un nugolo di giovani letterati, che gli si rivolteranno spesso contro – complice la tendenza a sollecitarne la reciproca concorrenza, in nome del divide et impera – e un harem di donne e eunuchi (cui aggiungere la cosiddetta Zufolina: nomina sunt ecc.). Fra i personaggi più vividamente tratteggiati nel saggio di Sberlati è Andrea Gritti, il bastardo del doge, sorta di satrapo in odore di maomettismo, residente in Costantinopoli, con il quale Aretino instaura commerci molto amichevoli, prima di spirare per sempre a causa di «una cannonata di aplopessia»: per soverchio ridere, vuole una vulgata; sopra la cadrega del cesso, vuole un’altra.